Il 18 settembre 2024 è stato approvato dalla Camera dei deputati un nuovo decreto di legge (ddl 1660) che prevede numerose modifiche – dal valore penale – in merito alla tutela della pubblica sicurezza, del personale di servizio e “nonché delle vittime di usura e di ordinamento penitenziario”.
Ci sono due sottoinsiemi principali nei quali si biforca la proposta di legge, l’introduzione di nuovi reati e l’aumento delle pene per quelli già esistenti; e c’è un fondamentale diritto che il decreto va a toccare e – lo vedremo – a limitare in maniera del tutto ingiusta: la libertà d’espressione.
Perché mi concentro su questo aspetto del decreto?
Per garantire la sicurezza pubblica, il Governo Meloni ha pensato che la soluzione migliore fosse il terrorismo della libera parola. Non fatevi ingannare dal paradosso, le ragioni sono evidenti: come può un Governo proteggersi meglio che evitando manifestazioni e proteste?
È proprio questa, infatti, una delle fondamentali conseguenze del ddl 1660: il decreto-legge prevede una pena dai 2 ai 6 anni di reclusione per tutti coloro che sommuovono atti di resistenza in forma scritta o orale. Insomma, difficile immaginare che manifestazioni o proteste continueranno – in caso di conferma del decreto – ad essere parte integrante dell’attività politica e di comunicazione dei cittadini.
Se si analizza il testo nello specifico le restrizioni cui la libertà di espressione sarebbe sottoposta sono lampanti: l’articolo 14, per esempio, prescrive che sia punito a titolo di illecito il blocco stradale e ferroviario attuato mediante ostruzione fatta con il proprio corpo – con la pena che aumenta se il fatto è commesso da più persone riunite -, mentre secondo l’articolo 26, è vietata ogni forma di protesta o resistenza passiva. In altre parole, ogni forma di rivolta, che sia aggressiva o pacifica, è disincentivata e con essa è scoraggiato o, forse, bandito l’atteggiamento critico nei confronti del potere che ha profondamente segnato la storia politica del ‘900 (e non solo). Sembra facile incentrare l’argomentazione attorno a un diritto inalienabile quale è la libertà di pensiero, espressione e manifestazione; è difficile contestarne l’importanza e sconveniente contro-argomentare. Per questo motivo, per non nasconderci dietro la forza di questi concetti, è essenziale calarci nella quotidianità e chiederci: quali sono le conseguenze pratiche di questo decreto-legge? Come potrebbe inficiare nella libertà di ciascuno di noi come individuo, studente, lavoratore e cittadino?
Un primo esempio credo sia facile per tutti da individuare. Se pensiamo al numero esorbitante di notizie che riportano pericoli, infortuni e incidenti di migliaia di lavoratori che si trovano spesso ad operare in condizioni assolutamente non idonee alle loro mansioni e ai rischi che corrono, è fin troppo semplice (e angosciante) immaginare la disastrosa conseguenza del decreto: disagi, soprusi, ingiustizie – tutto quello che potrebbe essere urlato da chi solo la propria voce ha per cambiare le cose – verrebbero sepolti dal silenzio e dal deterrente della galera.
Non ho di certo scelto a caso questo esempio. Nel leggere attentamente il testo, ci si rende facilmente conto di un elemento cruciale: il decreto mina la libertà e la capacità di ribellarsi dei più deboli, delle persone in condizioni subalterne. Come? Il ddl 1660 prevede fino a vent’anni di reclusione per chi solleva proteste all’interno di Centri di permanenza (Cpr) o carceri. Non solo a me questi due non sembreranno due luoghi neutri, non solo di per sé, ossia per quello che effettivamente sono e rappresentano, ma anche per le condizioni nelle quali si trovano strutture detentive o di accoglienza. Basti pensare alla situazione delle carceri italiane, con un sovraffolamento del 130%, condizioni di vita disumane, condizioni igieniche tutt’altro che salubri e accettabili, violenza e, di nuovo, sopruso. Per non parlare dei centri di accoglienza: sono sempre più numerose le testimonianze e le foto che ci mettono di fronte all’inferno in terra, a galere a cielo aperto; così è sempre più feroce la volontà della classe politica di ignorarlo.
Mi chiedo – come molti di voi si chiederanno – quale sia e se ci sia, invece, un disegno di legge che miri a risolvere situazioni che si avvicinano pericolosamente al limite dell’umana decenza. Non vi preoccupate, cari lettori, non sono impazzita: la mia è una domanda retorica, e so bene che a questo Governo – e alla sua dirigente – degli ultimi, dei diversi, degli schiavi, non interessa.
Non so nemmeno io quale possa essere la soluzione, ma sono certa che più si continua ad azzittire le grida, a frenare gli studenti indignati, a minacciare le istanze di cambiamento, più ci si allontana dalla democrazia.
A cura di Guendalina Lazzeri