Riflessioni su una domanda scomoda

La prima assemblea a cui ho partecipato durante il Forum è stata: “Kavanaugh e la Corte suprema – Dibattito”. Brett Kavanaugh, il più importante dei nove giudici della Corte suprema degli Stati Uniti d’America, è stato accusato di aver tentato di stuprare Christine Blesey Ford e altre due donne ai tempi del liceo, cioè negli anni ’80. Il dialogo è partito dalla domanda: “Possiamo giudicare un uomo per azioni che ha compiuto trent’anni prima?”. Esaurito l’argomento Kavanaugh, l’assemblea è andata avanti sui temi del patriarcato e del maschilismo, realtà ancora sorprendentemente presenti in Italia e nel mondo. Ma il mio stupore si è acceso quando, alla domanda: “Chi, fra di voi, si è sentito almeno una volta intimorito o preoccupato camminando da solo per strada?”, tutte, e dico tutte, le ragazze presenti nella stanza hanno alzato la mano, nessuna esclusa. Come può essere possibile che una trentina di ragazze fra i quattordici e diciannove anni abbiano provato paura, timore, ansia o “semplice” preoccupazione nel passeggiare per strada da sole? Come può essere anche solo minimamente accettabile? Siamo piccole, siamo ancora bambine, e ci troviamo ad affrontare paure da adulti, problemi più grandi di noi, un’ansia radicata nei secoli che ci tocca e ci cambia ancora oggi. E se questa fobia razionale è così diffusa in un gruppo così piccolo di studentesse così giovani, come possiamo immaginare sia il mondo al di fuori? La scuola è lo specchio della società, dicono, ma se è vero, spero che sia offuscato e ci dia un’immagine sbagliata. Non so, non voglio e non posso pensare a un’adulta fiera e forte che cambia marciapiede per paura delle avance di un uomo che neanche si rende conto del male che sta compiendo. Forse egli non ha colpa della sua ignoranza: nessuno gli ha insegnato a non tirare i capelli alle bambine all’asilo. Credo sia proprio questo l’altro problema: l’educazione alla disparità. Dai padri che dicono ai figli “Non piangere, sei un maschio.” alle madri che vietano alle figlie di giocare a calcio, passando per gli insegnanti che propongono ai bambini testi sullo sport maschile per antonomasia (indovinate qual è?!) e alle bambine racconti sulle bambole (quest’ultima situazione mi è successa per davvero, non l’ho inventata), la nostra istruzione e la nostra infanzia sono impregnate di disuguaglianze. Se proprio i modelli della nostra vita sono (magari involontariamente) sessisti, non possiamo di certo sperare di crescere liberi dai pregiudizi. Il cambiamento deve partire dalle aule di scuola e dalle case: gli insegnamenti dei maestri e dei genitori sono fra i più importanti. Creare la parità e l’uguaglianza fra tutti gli esseri umani dovrebbe essere l’obiettivo della nostra generazione. Costruiamo un mondo in cui l’uomo possa esprimere i propri sentimenti e la donna essere mamma e manager. Rendiamo la società accogliente per tutti. Facciamo sì che i nostri figli abbraccino le loro peculiarità e non si sentano diversi. Questo è il cambiamento che spero stia avvenendo nelle nostre città. È un’utopia? No, è il futuro.

A cura di Elisa Salvadori

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