La cultura degli scacchi

Gli scacchi si possono paragonare ad un tipo di arte bellica. Infatti abbiamo un vero e proprio campo di battaglia, con su schierati diversi tipi di combattenti inquadrati a formare una strategia complessa e incantevole, a tratti ipnotica, che ci obbliga a seguire l’articolato scontro che si intreccia tra quelle sessantaquattro caselle.

Essi sono un linguaggio universale, ma del quale tutti pronunciano un dialetto differente e dal quale ognuno detta (quasi) leggi proprie per crearsi uno stile diverso ma allo stesso tempo immutabile e preciso; infatti sia i grandi campioni, come l’americano Bobby Fischer o il norvegese Magnus Carlsen, sia chi gioca a scacchi solamente per hobby, ma nel quale trova più di un passatempo, scorge un’unica ed incredibile bramosia da coltivare a da analizzare.

Negli scacchi vivono una moltitudine di complessità, dalle quali si ricavano le migliori giocate e partite, creando quello che si può definire più di un semplice gioco da tavolo.

Non si conosce con certezza l’origine degli scacchi, ma ci sono due teorie principali.

Secondo la prima gli scacchi sono nati e si sono sviluppati in India, presso l’impero Gupta, una delle maggiori potenze indiane, il cui territorio comprendeva l’India del nord e l’odierno Bangladesh, situato a est di questa.

Si crede che gli scacchi siano derivati da un gioco molto popolare in quei luoghi, il caturaṅga (che significa “quattro ranghi” e di cui si deve notare la somiglianza con le lingue indoeuropee), padre di quelli che si possono chiamare “giochi con scacchiera”, come la dama, il cinese xiangqi e il thailandese makruk. Quest’ultimo è considerato il più prossimo agli scacchi a causa della grandissima somiglianza con le mosse dei pezzi e le tattiche utilizzate. Si stima che dei circa due milioni di thailandesi che conoscono le regole del makruk, solo cinquemila sappiano giocare a scacchi.

Il caturaṅga quindi si è sviluppato sia ad oriente che ad occidente. Qui sarebbe arrivato ai persiani, che ne cambiarono alcune regole e lo denominarono shaṭranj, per poi passare agli arabi, che poi lo tramandarono all’Europa medievale.

Invece per la seconda teoria gli scacchi sono derivati dal cinese xiangqi.

Esiste inoltre una popolare leggenda sulla creazione degli scacchi, sfortunatamente a sfondo drammatico. Si racconta infatti che un re indiano di nome Yadava, nell’atto di vincere un’importante battaglia contro un regno vicino, esaminando una moltitudine di strategie per aggirare e battere il nemico sia arrivato alla conclusione di dover sacrificare il battaglione in cui combatteva l’amato figlio, che sarebbe dovuto morire valorosamente in battaglia.

Il re, non dandosi pace per l’accaduto, passava ogni giorno a studiare gli schemi di battaglia per trovare un modo alternativo al sacrificio del figlio, non riuscendo però a trovare la soluzione. Un giorno si presentò alla corte di Yadava un monaco di nome Lahur, il quale presentò al re il gioco degli scacchi, con l’unica differenza che al posto del pezzo dell’alfiere si trovava un elefante, che conservava però le movenze del pezzo odierno. Il re, alla vista del gioco, apparve riluttante, ma cominciando a giocare sviluppò una vera e propria passione.

Grazie agli scacchi scoprì la tattica necessaria a vincere lo scontro e contemporaneamente salvare il figlio. Il re ne fu così felice che convocò al palazzo Lahur, offrendogli in dono qualsiasi cosa per ringraziarlo dell’aiuto nella risoluzione dell’enigma che tanto lo fece penare.

Il monaco però non desiderava alcuna ricompensa, ma il re Yadava, essendo immensamente grato a Lahur, insistette e insistette, fino a quando il saggio uomo si decise ad accettare una gratificazione.

La richiesta del monaco fece sorprendere Yadava, poiché egli chiese semplicemente di riempire la prima casella della scacchiera (che è composta da ben sessantaquattro caselle) con un chicco di riso, la seconda con due, la terza con quattro, la quarta con otto e così via.

Sembra una strana richiesta, ma se si fanno i calcoli, si arriva ad un numero talmente grande che nemmeno tutto il raccolto di riso dell’India in ottocento anni sarebbe riuscito a colmarlo.

Col tempo gli scacchi si sono evoluti con la storia del mondo e della società, diffondendosi inizialmente come passatempo.

Il gioco, al suo arrivo in Europa, si diffuse soprattutto in contesti nobili e cavallereschi, ma subì diverse minacce dal mondo ecclesiastico e politico, poiché non fu mai visto con buon occhio, tanto che nel 1254 re Luigi IX lo proibì in terra francese, ma comunque il gioco proseguì il suo sviluppo, facendo breccia all’interno del mondo monarchico.

Abbiamo infatti testimonianze che re come Enrico I, Riccardo d’Inghilterra ed addirittura Ivan il Terribile abbiano giocato a scacchi.

Nel XV secolo, specialmente in Francia ed in Italia, gli scacchi divennero finalmente come li conosciamo adesso, con la fissazione delle regole moderne, chiamate “regole occidentali” o più precisamente “regole internazionali”.

Ai tempi però non esisteva l’idea di “strategia”. I giocatori infatti si svagavano con un gioco spericolato e senza limiti, non pensando alle reali conseguenze delle mosse e quindi non guardando in “avanti”, ovvero senza cercare di prevedere già dal principio le risposte avversarie ed intervenire contro esse.

Questa è una caratteristica molto importante negli scacchi, poiché gran parte delle tattiche si basano sul prevenire e contrastare possibili minacce oggettive.

Il primo a rendersi conto di questa peculiarità fu François-André Danican Philidor (1726-1795) scacchista e compositore di scacchi francese (colui che si dedica alla creazione e allo svolgimento di problemi relativi al gioco), da cui prese il nome la celebre “Difesa Philidor”.

Il primo torneo mondiale di scacchi si tenne nel 1851 a Londra. Il campionato fu vinto da Adolf Anderssen (1818-1879), considerato all’epoca uno dei migliori giocatori a causa del suo stile aggressivo ed impulsivo, che sbaragliava gli avversari già dalle prime mosse.

Lo scacchista più talentuoso e vincente del periodo fu l’americano Paul Morphy (1837-1884).

Egli aveva uno stile di gioco sorprendente: era solito sacrificare pezzi importanti (come cavalli, alfieri e torri) per letteralmente distruggere le posizioni avversarie, confondendo i contendenti. Questa tattica faceva andare ovviamente in vantaggio questi ultimi per un breve periodo, per poi vedere la situazione capovolgersi mossa dopo mossa.

Nel XX secolo nasce una nuova era per gli scacchi.

Nel 1924 viene istituita la FIDE, ovvero la federazione internazionale di scacchi, che si occupa di organizzare, analizzare e regolamentare le attività scacchistiche a livello mondiale.

La FIDE inoltre assegna titoli ai giocatori professionisti. Il più importante di questi è il titolo di Grande Maestro (GM), che si ottiene raggiungendo e/o superando la soglia dei 2500 punti ELO. Abbiamo poi Maestro Internazionale (2400 punti), Maestro FIDE (2300 punti) e Candidato Maestro FIDE (2200).

Esistono inoltre varie tipologie di gioco in base al tempo che gli sfidanti hanno a disposizione per vincere o pattare (pareggiare) la partita. Queste sono le Standard (novanta minuti a testa), le Rapid (superiore ai dieci minuti ed inferiore ai sessanta), e le Lampo (inferiore o pari ai dieci minuti).

Nel tempo sono stati istituiti molti tornei, i più importanti dei quali sono il Campionato del Mondo e il Tata Steel Chess.

Gli scacchisti più importanti del novecento sono stati naturalmente l’americano Bobby Fischer (1943-2008), uno dei più grandi innovatori del gioco, e il suo più grande avversario, il russo Garri Kasparov.

Attualmente il primo al mondo nella classifica FIDE è il norvegese Magnus Carlsen, divenuto Grande Maestro all’età di 14 anni.

Assieme agli scacchi è nata una vera e propria onda culturale, che ha cambiato radicalmente il modo di pensare e di approcciarsi alla vita.

In alcuni paesi questo è riconosciuto più che in altri.L’Armenia, piccolo paese caucasico, ha preso seriamente il potenziale che gli scacchi possono tramandare.Infatti dal 2011 gli scacchi sono materia obbligatoria nelle scuole.

Il blogger Nuseir Yassin dice: “Tutti sanno che i bambini imparano molto rapidamente e qualunque cosa imparino la ricordano per tutta la vita. Ecco perché qui, in Armenia, sono rimasto affascinato dal vedere che, oltre a matematica e scienze, i bambini studiano anche gli scacchi. Qui ad ogni bambino vengono insegnati gli scacchi, in classi e scuole dedicate. Questo insegna loro a concentrarsi, competere e sviluppare le loro abilità cognitive, in modo da crescere e diventare Grandi Maestri.”

L’Armenia infatti è una delle migliori nazioni scacchistiche e ha dato i natali a grandissimi Grandi Maestri, come Levon Aronian e l’eccezionale Tigran Petrosian, campione del mondo nel 1963.

Un altro paese dedito agli scacchi è la Russia. Esso è considerato “sport” nazionale e sono celebri le immagini delle piazze delle città ghermite di anziani che si ritrovano tutti i giorni a giocare a scacchi.

Dalla Russia ci sono arrivati dei veri e propri geni degli scacchi, come Kasparov e il giovane talento Daniil Dubov.

Il gioco ha influenzato anche la televisione e il cinema. Indimenticabile è il film “Pawn Sacrifice” (il sacrificio del pedone), di Edward Zwick, interpretato da Tobey Maguire, che racconta la tormentata vita di Bobby Fischer, incentrandosi sul campionato del mondo di scacchi del 1972,  con avversario il sovietico Boris Spasskij.

Con la venuta poi della serie Netflix “La Regina degli Scacchi” (a mio parere una delle migliori prodotte da Netflix) abbiamo avuto un periodo di maggiore “considerazione” verso gli scacchi.

Negli Stati Uniti d’America sono cresciute notevolmente le vendite di scacchiere e libri riguardo l’argomento.

Spesso gli scacchi sono reputati come un gioco lungo, noioso, lento e complicato, spesso giudicati come antichi.

Abbiamo avuto la prova che no, gli scacchi non sono passati di moda, ma lo sono sempre stati e sempre lo saranno, poiché non solo riescono a dare un’idea alternativa al noioso svolgimento di semplici problemi e conseguono ad uno sviluppo mentale alternativo, ma perché in sessantaquattro caselle ci si può realmente perdere come in una foresta, con poi l’obiettivo di ritrovare il sentiero che porta allo scacco matto.

A cura di Rocco Sebastiani

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