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La cultura dello stupro: da vittime a carnefici

  Questo articolo fa parte del numero 25 del MichePost, uscito in formato cartaceo l’8 maggio 2021


Esistono ingiustizie talmente eclatanti che quasi passano inosservate, vengono relegate in secondo piano, sminuite. Proprio quando l’ingiustizia diviene tanto diffusa da smettere di essere considerata tale, affonda le proprie radici nella cultura di un popolo e ne diviene parte integrante. Questo processo porta ad interiorizzare tali sistemi e giunge ad influenzare il nostro modo di agire, pensare, scegliere. Quel che non dovrebbe essere si riflette inesorabilmente – e, oserei dire, paradossalmente – in quel che siamo, governa la società. Ogni individuo di sesso femminile, presto o tardi, dovrà fare i conti con questa triste realtà. 

È considerato normale che una donna sia costretta ad ascoltare battute sessiste, sia oggetto di osservazioni indesiderate o avance sessuali assolutamente non richieste, debba venir a patti con realtà che non sfiorano neanche lontanamente gli uomini: sono niente di più che ragazzate, spesso liquidate dalle stesse donne come sciocchezze. In una società di questo tipo, sbagliata fin dalle fondamenta, non sorprende che persino lo stupro, uno spietato atto di violenza carnale, venga giustificato e normalizzato, e che siano incoraggiati gli atteggiamenti che pretendono di controllare la sessualità femminile. Ciò è alla base della cultura dello stupro, pertanto comprenderlo costituisce un passo fondamentale, non solo nel combattere lo stupro in sé, ma tutti gli attacchi subiti dalle donne. 

Si tratta di un meccanismo tanto subdolo quanto potente e pervasivo: gli stupri e i femminicidi rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. La giornalista britannica Laurie Penny affermò: «Nominare e denunciare la cultura dello stupro è stata una delle azioni femministe più importanti degli ultimi tempi, ma anche una delle più discusse e fraintese» . A questo proposito è necessario chiarire un punto fondamentale: non ogni uomo che fa battute sessiste è uno stupratore, ma chiunque le faccia, ne rida, rimanga in silenzio, si volti dall’altra parte, alimenta la cultura dello stupro.

Il concetto sociologico di cultura dello stupro risale agli anni Settanta, durante i quali Margaret Lazarus, produttrice e regista statunitense, affrontò, nel documentario Rape Culture, la rappresentazione dello stupro nel cinema, nella musica e nelle arti. Negli stessi anni uscì il libro Against Our Will: Man, Women and Rape della scrittrice e giornalista Susan Brownmiller, nel quale lo stupro veniva definito «un processo cosciente di intimidazione attraverso il quale tutti gli uomini mantengono le donne in uno stato di paura» . A lei va il merito di aver posto lo stupro non più soltanto in una dimensione strettamente sessuale, ma in una più ampia e complessa dinamica di potere tra i generi; secondo l’autrice, infatti, gli uomini attraverso lo stupro esercitano e ribadiscono il loro potere e controllo sul corpo femminile. Nel libro Trasforming a Rape Culture le autrici Pamela Fletcher, Emilie Buchwald e Martha Roth diedero una definizione più vasta e completa di cultura dello stupro: «Un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta». 

Fanno parte della cultura dello stupro gli atteggiamenti volti a delegittimare la versione della donna, minando la sua credibilità o facendo leva sui tempi di denuncia considerati troppo lunghi; il reputare la mancanza di coscienza un’attenuante e non un’aggravante per lo stupratore; l’attribuire alla vittima stessa la responsabilità − seppur parziale − dell’accaduto, ritenendo che in qualche modo se la sia andata a cercare. In quest’ottica la cultura dello stupro si lega ad altri due fenomeni: il victim blaming, il processo che porta ad incolpare la vittima per la violenza subita, addossandole la colpa dell’atto violento, e lo slut shaming, la stigmatizzazione dei comportamenti e dei desideri sessuali femminili, a partire dal modo di vestire, considerandoli inappropriati, provocanti e sfacciatamente volgari, a differenza degli analoghi atteggiamenti maschili, non oggetto di dibattito e addirittura esaltati.

La cultura dello stupro sopravvive e prospera all’interno di un contesto sociale patriarcale, nel quale la differenza biologica diventa differenza di genere, di ruoli. La violenza contro le donne, infatti, è indissolubilmente legata all’effetto che il patriarcato ha sugli uomini, a partire dalla mascolinità tossica. All’origine della mascolinità tossica c’è l’educazione impartita agli uomini, ai quali, fin da bambini, viene inculcato che esiste un solo modo per essere tali, per essere “veri uomini”; tutto il resto è vile e disprezzabile: femminile, insomma. La mascolinità tossica è anzitutto una questione di potere, esercitato dagli uomini sulle donne e sul corpo femminile, spesso visto esclusivamente come oggetto di appagamento sessuale. In una dimensione sociale fortemente influenzata dalla struttura patriarcale, inoltre, una vittima di stupro, per essere creduta, deve incarnare determinate caratteristiche, che riflettono l’immagine che il patriarcato ha della donna. La vittima perfetta è vestita in un certo modo, non frequenta determinati luoghi nelle ore della notte, è rigorosamente sobria e ha avuto pochi partner sessuali nella sua vita. In questa distorta visione dello stupro, la vittima grida, piange, si dimena, si oppone con tutte le sue forze, e, appena dopo l’accaduto, ha la lucidità e la prontezza di denunciare. La realtà è tutt’altro: paura di morire, completa impotenza, paura di non essere creduta, paura di essere giudicata, vergogna.

Quello della cultura dello stupro è un tema estremamente controverso e pieno di sfaccettature, ma appare evidente come, ancora oggi, la voce principale nella narrazione dello stupro non appartenga a chi l’ha subito. Un uomo accusato di stupro è innocente fino a prova contraria, una donna che denuncia uno stupro passa da essere la vittima ad essere l’oggetto di indagine stesso. Viviamo in una società solidale con lo stupro, che tende a schierarsi dalla parte dell’uomo, troppo spesso percepito come un individuo da difendere da atteggiamenti femminili maligni e manipolatori oltre che esagerati e vittimistici, piuttosto che da quella della donna, considerata responsabile − almeno in parte − dell’accaduto.

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