And the Oscar goes to…

Nella notte tra domenica 9 e lunedì 10 febbraio si  è tenuta la 92esima edizione dei premi Oscar sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles. Anche quest’anno non c’è stato un unico presentatore, ma diversi artisti hanno animato la serata esibendosi tra il ritiro di un premio e l’altro. Non sono inoltre mancati momenti pittoreschi, assieme ad altri molto più commoventi o dal profondo valore politico. 

Ad aprire la cerimonia è stata Janelle Monàe che, con la partecipazione di Billy Porter, si è esibita in un medley dedicato alla celebrazione delle donne e all’orgoglio afroamericano.

Su tutte sono da sottolineare le  performances di Elthon John e Billie Eilish: il primo ha cantato (I’m Gonna) Love Me Again, brano presente nel film biografico a lui dedicato, Rocketman, e che gli è valso la statuetta per la miglior canzone originale; Billie Eilish si è invece esibita in Yesterday dei Beatles per omaggiare i talenti del cinema venuti a mancare nell’ultimo anno. 

Altro grande numero della serata è stato quello di Eminem; il rapper è comparso a sorpresa sul palco dell’Academy e ha cantato Lose Yourself,  brano presente nella colonna sonora del  film 8 Miles, che racconta la sua storia, e che è stato vincitore dell’Oscar per la miglior canzone nel 2003.

Per quanto riguarda i premi assegnati, sono state molte le sorprese: il sudcoreano Parasite ha sbaragliato la concorrenza dei film favoriti come 1917 o C’era una volta a…Hollywood, vincendo ben quattro statuette nelle categorie più importanti. Ma a dominare davvero la cerimonia è stata una meritocrazia che non si vedeva da anni e che ha segnato un cambiamento senza precedenti.

Miglior film

Domenica notte Parasite è entrato a far parte della storia del cinema diventando il primo film non in lingua inglese a vincere l’Oscar al miglior film. Solo altri 11 film stranieri erano stati precedentemente nominati  in tale categoria; fra questi ROMA, che l’anno scorso era stato il primo film prodotto da una piattaforma streaming ad essere candidato.

“Sono senza parole. Non avremmo mai immaginato che una cosa del genere potesse accadere. Siamo così felici. Sento che questo è un momento importantissimo per la storia. Esprimo la mia più profonda gratitudine ai membri dell’Academy per aver preso questa decisione” ha detto il produttore Kwak Sin-ae una volta salito sul palco del Dolby Theatre, mentre il regista e sceneggiatore del film, Bong Joon-oh, quasi non riusciva a credere di aver ottenuto un tale riconoscimento.

In un anno dominato da pellicole che parlano del passato – 1917, C’era una volta a… Hollywood, The Irishman – l’Academy è andata controcorrente e ha premiato una delle opere più emblematiche dei nostri tempi, che parte come una commedia degli equivoci, ma che presto si trasforma in uno straordinario apologo sul classismo invalicabile della Corea e, più in generale, dell’intero Occidente.

Miglior regia 

Dopo i premi ricevuti nelle precedenti manifestazioni, sicuramente il favorito per la vittoria era Sam Mendes, che con il suo “falso” piano sequenza in 1917 (sulla scia di Birdman), sembrava,  a venti anni di distanza da American Beauty, a un passo dall’aggiudicarsi la sua seconda statuetta.

Ma a prevalere sui tecnicismi di Mendes è stata la regia a dir poco ispirata di 

Bong Joon-oh, che ha diretto uno tra i migliori film degli ultimi anni con immensa maestria e precisione.

Incredulo e commosso Bong Joon-ho  è salito sul palco dell’Academy e ha umilmente ringraziato tutti i cineasti candidati insieme a lui, a partire da Martin Scorsese, che è stato poi omaggiato dalla platea con una standing ovation.  

Quando studiavo cinema c’era una frase che avevo inciso sul mio cuore: ‘più è personale, più è creativo’. Quella frase era del grande Martin Scorsese – ha spiegato il regista sudcoreano, che ha aggiunto – Quentin Tarantino ha sempre messo i miei film  nella lista dei suoi preferiti, anche quando non mi conosceva nessuno negli USA. Todd (Phillips) e Sam (Mendes) vi ammiro. Mi piacerebbe avere una motosega per condividere questo Oscar con tutti voi”.

Miglior sceneggiatura originale

In questa categoria lo scontro era fra due pellicole: C’era una volta a…Hollywood, nono film di Quentin Tarantino, e Parasite, scritto e diretto da Bon Joon oh.

A trionfare è stata la brillante e folle sceneggiatura di quest’ultimo, che riesce ad essere intelligente, profonda e complessa senza per questo mettere mai da parte l’esigenza dell’intrattenimento.

Con Parasite, Bong Joon-oh riflette sulle disparità sociali e sulla lotta tra classi  partendo dalla figura del parassita, e si dimostra capace di spaziare tra più generi, spostandosi abilmente dalla satira sociale al thriller, fino a toccare venature quasi horror; dialoghi  raffinatissimi e un costante sottofondo di amarezza, che non rinuncia al divertimento e alla satira, coesistono in una magistrale sceneggiatura che non risparmia niente e nessuno.

Miglior sceneggiatura non originale

Con il suo libero adattamento del romanzo Come semi d’autunno (Caging Skies)  non poteva che essere Taika Waititi ad aggiudicarsi la statuetta, pur considerando le grandi sceneggiature in gara (prima fra tutte quella di The Irishman, scritta da Steven Zaillian)

Oggi più che mai c’è bisogno di storie che parlino di rispetto e tolleranza  e, in quest’ottica, Waititi ha costruito un film intelligente e coraggioso, che parte dalla discriminazione più sconvolgente del ‘900, l’oppressione degli ebrei da parte della Germania nazista, e porta avanti un discorso applicabile anche al nostro presente. 

Senza mai perdere il suo stile dissacrante e satirico, Waititi è riuscito nella difficile impresa di raccontare una fiaba in grado di commuovere, far ridere, ma anche, e soprattutto, riflettere, dipingendo un vero e proprio inno alla vita e alla diversità per contrastare chi ancora esalta la guerra nel mondo.

Miglior attore protagonista

La vittoria di Joaquin Phoenix non è stata certo una sorpresa; d’altronde Joker si regge quasi interamente sulla sua superba prova attoriale, arrivata dopo anni di ruoli già impeccabili (Il Gladiatore, The Master, Lei).

Phoenix interpreta un Arthur Fleck complesso e profondamente sofferto che chiede disperatamente aiuto, fino ad arrivare  ad una drammatica, ma trionfale accettazione di sé che sembra essere al contempo sconfitta e vittoria, e lo fa in maniera semplicemente magistrale. Il suo volto scavato, il corpo denutrito e la risata incontrollabile, che conserva il riverbero del dolore più straziante, tratteggiano un personaggio destinato a entrare nell’immaginario collettivo.

Al momento della vittoria, Phoenix non ha trattenuto l’emozione e ha parlato di tutto ciò che gli sta a cuore – l’ambiente, la lotta contro le disuguaglianza di genere, di provenienza e appartenenza, i suoi anni bui – per poi omaggiare il fratello River, anch’egli attore, morto tragicamente nel 1993, all’età di 23 anni.

“Quando mio fratello aveva 17 anni ha scritto queste parole: ‘Run to the rescue with love and peace will follow’.”

Miglior attrice protagonista 

Dopo la vittoria come attrice non protagonista per Ritorno a Cold Mountain, Reneé Zellweger si è aggiudicata il secondo premio Oscar – questa volta da protagonista – per la sua interpretazione di Judy Garland. Sicuramente si tratta di una grande performance vocale e attoriale, valore aggiunto di una pellicola di per sé non particolarmente memorabile. Tuttavia tra i nomi della attrici candidate compariva anche quello di Scarlett Johansson, che segna un record importante nella storia degli Academy Awards: candidata sia come attrice protagonista che non protagonista, rispettivamente per Storia di un matrimonio e Jojo Rabbit, è la dodicesima star nella storia ad aver guadagnato una doppia nomination nello stesso anno per ruoli differenti.

La sua interpretazione di Nicole in Storia di un matrimonio è semplicemente impeccabile, la migliore di una carriera iniziata all’età di dieci anni, ma su di essa ha prevalso soprattutto una questione di affetto da parte dell’ Academy per il personaggio di Judy Garland, che per anni ha incarnato il sogno della Hollywood degli anni d’oro.

Miglior attore non protagonista

Ad aggiudicarsi il premio come miglior attore non protagonista è stato Brad Pitt, che per il suo Cliff Booth in C’era una volta a…Hollywood aveva già ricevuto il plauso unanime del pubblico e della critica.

In seguito alla stagione dei premi, che lo aveva visto aggiudicarsi un Golden Globe e un BAFTA, l’attore statunitense era sicuramente il favorito per la vittoria, nonostante dovesse fronteggiarsi con  mostri sacri quali Al Pacino, Joe Pesci, Anthony Hopkins e Tom Hanks.  

Tutte grandi interpretazioni (in primis quella di Al Pacino in The Irishman, ultima fatica di Martin Scorsese), sulle quali Brad Pitt è riuscito a prevalere: in C’era una volta a… Hollywood sembra aver raggiunto una naturalezza forse mai mostrata e riesce a spiccare nonostante il  suo personaggio graviti attorno a quello di DiCaprio. Senza dubbio una delle sue  prove migliori, che gli è valsa il secondo premio Oscar  – nel 2013 aveva vinto un Academy Award da produttore per 12 anni schiavo – e il primo come attore.

Miglior attrice non protagonista

Alla terza nomination, Laura Dern ha vinto l’Oscar come miglior attrice non protagonista per Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, in cui veste i panni di Nora, avvocato divorzista temprata e sicura di sé, che assiste Nicole (Scarlett Johansson) con determinazione e gentilezza.

Anche in questa categoria spiccava Scarlett Johansson, con la sua toccante interpretazione della dolce, radiosa e coraggiosa Rosie in Jojo Rabbit.

Tuttavia è giusto che dopo così tanti anni sia stato riconosciuto a Laura Dern l’impegno nel mondo del cinema, a cui si è avvicinata grazie anche ai  genitori, entrambi attori, che ha voluto ringraziare sul palco dell’Academy : “Dicono che i propri eroi non si incontrano mai, ma io ho avuto la benedizione di incontrarli nei miei genitori, condivido quindi questo premio con i miei eroi della recitazione, le mie leggende: Diane Ladd e Bruce Dern”.

A cura di Bianca Formichi

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