La guerra in Ucraina ha comportato uno stravolgimento politico senza precedenti. I primi, senza dubbio, ad accusare le conseguenze di questo scellerato conflitto sono gli stessi ucraini, i quali da più di un mese, oramai, si ritrovano a vivere in un vero e proprio inferno terreno, come testimoniano le quotidiane immagini che ci arrivano da città come Mariupol, nel sud del Donbass. Gli effetti della crisi ucraina, seppur in maniera infinitamente minore, si stanno comunque propagando nel mondo occidentale, animando il dibattito pubblico sui più disparati temi, dall’aumento della spesa pubblica nel campo militare, ad un nuovo precario equilibrio geopolitico internazionale, fino al tema dell’energia. In questo articolo cercherò di focalizzarmi su quest’ultimo, premettendo che non sono un economista e mi limiterò, umilmente, a riportare la mia personale opinione alla luce di alcuni dati da me rinvenuti, in quanto credo che questo argomento abbia una rilevanza tutt’altro che indifferente all’interno del conflitto russo-ucraino.
Si stima infatti che ogni giorno l’Unione europea versi alla Russia putiniana quasi un miliardo di euro per l’importazione di gas e petrolio. Soldi che vanno direttamente a finanziare la campagna militare russa. Emblematico in questo senso il discorso del 6 aprile scorso in cui l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha amaramente esplicitato il grande paradosso di questa guerra: l’UE, infatti, dall’inizio del conflitto ha inviato a Kyiv 1 miliardo di euro e ben 35 alla Russia. L’indipendenza energetica occidentale e, soprattutto, europea si rivela, quindi, uno strumento fondamentale che può giocare un ruolo veramente importante in termini di pressione economica nei confronti del Cremlino. L’approvvigionamento energetico dei diversi Paesi UE è assai variegato, ma fra i Paesi più dipendenti dal gas russo vi è proprio il nostro. Il fatto che l’Unione europea non sia stata capace, durante la sua storia, di creare una vera e propria comunità energetica è stato un errore da parte di Bruxelles, non riuscendo de facto a uniformare e minimizzare la dipendenza dei diversi Stati membri da Paesi esterni. Si stima che ben il 40% del gas importato europeo provenga dalla sola Russia, un numero impressionante. Se andiamo ad osservare i dati nostrani notiamo che l’Italia dipende dal gas russo per il 43%. Capiamo, quindi, quanto l’eventuale interruzione delle forniture potrebbe provocare un aumento notevole nel prezzo del gas con conseguenze devastanti dal punto di vista economico per la popolazione, portando ad un esacerbamento delle disuguaglianze sociali nella nostra penisola.
L’indipendenza energetica dell’Italia e della Comunità europea non sarebbe quindi soltanto un’oculata mossa politica ed economica, ma anche una intelligente strategia in campo geopolitico. È sciocco attribuire la colpa per la crisi energetica attuale al governo Draghi, in quanto essa è frutto di una politica che va avanti purtroppo ormai da decenni e che ha portato il nostro paese a essere dipendente quasi unilateralmente dalla Russia. Ma ora l’equilibrio internazionale è cambiato e ciò comporta una revisione nel campo delle politiche energetiche.
Quali sono, allora, le possibili soluzioni che ci si prospettano? Una cosa posso dire con certezza: di sicuro non riaprire le centrali a carbone, ipotesi caldeggiata dallo stesso Presidente del Consiglio Mario Draghi. Le centrali a carbone, retaggio oramai della seconda rivoluzione industriale, rappresenterebbero un passo indietro rispetto alla strategia energetica degli ultimi anni, volta ad una progressiva decarbonizzazione della nostra economia. L’addio al carbone è stato ipotizzato in diversi momenti, ma la data è sempre slittata. Si stima che nel 2021 il 4,3% del fabbisogno energetico interno italiano sia stato soddisfatto dalla fonte in questione; ancora troppo. Con l’acuirsi del conflitto nell’Est, l’idea di tornare al carbone sta, purtroppo, tornando a essere centrale nel dibattito pubblico. Se il governo optasse per questa soluzione, ciò rappresenterebbe un fallimento della nostra classe politica. Innanzitutto perché, se vogliamo ragionare in termini prettamente economistici, dal 2005 in Europa, con l’introduzione del sistema ETS, Emission Trading System, seppur quest’ultimo presenti molte zone d’ombra, chi inquina paga. Aumentare la dipendenza dal carbone, quindi, porterebbe ad ulteriori costi per l’Italia. Inoltre, porterebbe, dal punto di vista ambientale, conseguenze impossibili da prevedere. Se la siccità di questo inverno che ha portato un fiume come il Po in secca già non ce lo avesse fatto capire, la crisi climatica detiene una importanza pari a quella ucraina. Non possiamo tornare indietro, non ora.
Quale potrebbe essere, allora, una soluzione valida? Nel breve termine, sicuramente, la soluzione è quella di diversificare le fonti di approvvigionamento del gas, usufruendo pure del gas liquefatto statunitense, ma bisogna pensare anche al futuro prossimo e ciò significa lavorare affinché le energie rinnovabili rivestano un ruolo e un peso maggiore per il soddisfacimento del nostro fabbisogno interno. Il 25 febbraio scorso il presidente di Elettricità Futura Agostino Rebaudengo ha sostenuto questa tesi, definendo una soluzione strutturale per aumentare la sicurezza e l’indipendenza energetica italiana il fatto di installare 60 GW di rinnovabili in 3 anni. L’azione in questione porterebbe al risparmio di 15 miliardi di metri cubi di gas all’anno, ovvero ben il 20% del gas importato russo. Un’opinione simile è stata espressa pure da Francesco Starace, presidente di Enel.
Ma ciò non basta. Come hanno ribadito in un comunicato congiunto le principali associazioni ambientaliste nazionali, abbiamo bisogno, infatti, di interventi normativi e autorizzativi che permettano di ridurre il consumo di gas di 36 miliardi di metri cubo l’anno entro il 2026. Dobbiamo smaltire, quindi, gli immensi iter legislativi che l’installazione di parchi energetici si trova ad affrontare, promuovendo, ad esempio, lo sviluppo dell’eolico offshore, del fotovoltaico sui tetti, anche nei centri storici. Inoltre, bisognerebbe investire sul concetto di efficienza energetica. Secondo i dati raccolti da Greenpeace, infatti, ogni volta che a livello europeo aumentiamo il risparmio energetico dell’1%, riduciamo le importazioni di gas fossile dell’Europa del 2,6%. Secondo la stima di Repubblica, l’Italia è attualmente dipendente dall’import estero di energia per il 77%. Di conseguenza, attraverso il raggiungimento dell’obiettivo europeo di un taglio del 55% delle emissioni, l’Italia potrebbe arrivare in meno di 10 anni, grazie allo sviluppo di adeguate fonti di energia rinnovabile, a essere per la maggior parte indipendente dall’estero dal punto di vista energetico.
In conclusione, quindi, l’indipendenza economica italiana ha una chiara valenza strategica e potrà essere raggiunta solo attraverso l’implementazione delle fonti rinnovabili. La decarbonizzazione della nostra economia non è, dunque, importante solo dal punto di vista ambientale, ma anche politico, economico e sociale ed un percorso a cui prima o poi saremo obbligati. Ciò che, infine, resta da vedere è la capacità di lungimiranza, di previsione a lungo termine dei nostri politici. Proprio perciò nutro profondi dubbi su come verrà gestita la crisi energetica in questione. Spero vivamente di essere smentito.
A cura di Cosimo Scoccianti