A proposito del merito

Partiamo da una premessa necessaria: il concetto di merito è sacrosanto. Utopisticamente parlando, infatti, questo dovrebbe essere il motore primario dell’ascensione sociale. Utopisticamente parlando, appunto. La realtà dei fatti è ben diversa. Questa ci insegna ogni giorno che non necessariamente chi è più meritevole raggiunge traguardi migliori: tutt’altro. Gli esempi da richiamare sarebbero innumerevoli; mi prendo, pertanto, la licenza di ometterne la menzione. Sia sufficiente dire che in molti casi, purtroppo, da motore primo dell’ascensore sociale il merito diviene un elemento accessorio, un feticcio estetico per pochi incompresi.

L’idea, dunque, di fondare il sistema scolastico sul merito non è, a mio avviso, totalmente sbagliata, o, meglio, non lo è in quanto tale: lo è per i parametri, generalmente sterilmente numerici, applicati per misurare quest’ultimo. Questi non tengono conto, infatti, delle molteplici realtà in cui agiscono e prendono forma, a partire dalle condizioni sociali, economiche e culturali degli studenti: variabili determinanti e profondamente impattanti. La scuola, infatti, dovrebbe essere anzitutto promotrice di equità, non di uguaglianza, garantendo a tutti le stesse possibilità, non dando a tutti le stesse cose. Se a ha 4 e b ha 7, l’istituzione scolastica non dovrà dare ad entrambi 3, ma ad a 6, mentre a b 3. Questo principio fondante e fondamentale spesso viene dimenticato o relegato in secondo piano da docenti, presidi e ministri dell’istruzione vari. Parlare di merito in quest’ottica, tuttavia, non è soltanto poco corretto ma è inesatto e approssimativo. Siamo individui unici e irripetibili: questo è l’insegnamento più importante da trarre dall’esperienza scolastica. Non solo: siamo imparagonabili gli uni agli altri in quanto infinitamente diversi per vissuto, condizioni familiari e psicologiche. Tentare di metterci a confronto per mezzo di una valutazione necessariamente oggettiva, come i voti, di un qualcosa di profondamente soggettivo sarebbe una forzatura su tutta la linea.

Se da un lato, quindi, il merito è sacrosanto, dall’altro questo rischia di divenire un’arma a doppio taglio: uno strumento di divisione, di ulteriore demarcazione della disuguaglianza, portatore di elementi che dovrebbero rimanere fuori dalla scuola. Basarsi esclusivamente su un dato numerico per determinare chi sia meritevole e chi non lo sia, inoltre, non solo è fuorviante, ma è un modus operandi che fa appello diretto alla discrezionalità dei singoli professori, la cui posizione non sempre è condivisibile. E qui l’annosa faida tra chi ritiene il voto finale una semplice media aritmetica dei voti dell’anno, perdendo tuttavia di vista la funzione primaria di questi, ossia quella di indicare l’assimilazione di un determinato argomento da parte dello studente in fieri, ma non di stabilire il valore dello studente stesso, e chi si svincola da tale sistema in favore di una valutazione globale della persona in questione. Un numero non potrà mai, infatti, tenere conto di tutto quello che c’è dietro, così come riservare eccessiva importanza ad esso non recherà niente di buono agli studenti, incrementandone la competitività e la bramosia di emergere schiacciando gli altri, oltre ad essere all’origine di non pochi complessi interiori. In ciò si riflette, tra le altre cose, l’approccio sempre più utilitaristico alla scuola, divenuto ormai pregnante di essa. 

Niente di ciò che studiamo in sé per sé – discorso a maggior ragione legittimo nel nostro caso – ci sarà mai utile nella vita. Portiamo avanti studi deliberatamente inutili che si rivelano, tuttavia, nella maggior parte dei casi, costituenti della persona di chi li affronta. E questo non perché ci preparano a ciò che verrà dopo, ma poiché ci rendono infinitamente più umani. Se tra 20 anni, tranne in rarissimi casi, non ricorderemo più il paradigma di ago o la formula per calcolare la mole, certamente avrà un posto privilegiato nel nostro cuore la vicenda di Didone, che, non ignara della sofferenza impara a soccorrere i miseri, o di Dante, il quale, fallito come personaggio storico, sarà reso immortale dai propri versi. 

La scuola non è un’azienda che necessita di tradurre numericamente la propria condizione: non deve ma soprattutto non può farlo.  La scuola si compone di persone, che, in quanto esseri perfettamente imperfetti e pieni di innumerevoli sfaccettature, non saranno mai e poi mai inquadrabili attraverso un freddo numero.

A cura di Alessia Prunecchi

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