Giornata della memoria – Roberto, un’infanzia strappata

Di matricola 167973, Roberto Bachi, a soli 14 anni, è destinato a morire di tubercolosi nel campo di sterminio di Auschwitz.

Roberto, classe ’29 e nato a Torino, inizia il suo viaggio verso l’inferno il 6 dicembre 1943, quando sale su un treno diretto in Polonia dal binario 21 della stazione di Milano centrale. L’arresto a Torrechiara, un paio di mesi prima, è uno dei tanti momenti di separazione del ragazzo dalla vita normale di un quasi adolescente. Infatti già a scuola, dopo la pubblicazione delle leggi razziali, «nelle ore di religione doveva uscire dalla classe perché era ebreo», racconta uno dei suoi ex compagni di scuola elementare, Danilo Naglia. Quest’ultimo afferma anche di aver scoperto per caso la tragica fine del suo giovane amico: passando per piazza Garibaldi a Ravenna (città in cui il bambino e la sua famiglia vivono solo per un anno, per poi scappare a Piacenza) nota a terra una lapide sulla quale è inciso il nome di Roberto; il dolore per quella rivelazione è angosciante.

Inoltre, il brusco e improvviso allontanamento dalla madre Ines, avvenuto durante un rastrellamento da parte delle SS, è raccontato proprio dalla stessa in uno scambio di lettere con un’amica di Ravenna: i nazisti le sottraggono con violenza figlio e marito e la donna non fa in tempo a dimenarsi e urlare che già i due già non ci sono più, scomparsi dalla sua vita per sempre. Il coniuge Armando Bachi morirà soffocato nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau nel febbraio del ’44.

Attualmente all’interno della scuola elementare Mordani, frequentata da Roberto prima di essere deportato, c’è una lastra commemorativa dove viene riportata la sua pagella di quarta elementare, nella quale già emergono le sue capacità, nonostante la tenera età. Il viaggio di Roberto è diventato recentemente oggetto dell’omonimo spettacolo rappresentato in diversi teatri italiani; debutta anche a Firenze nel 2017, presso il Teatro Goldoni, con le esclusive testimonianze dei suoi compagni di classe ormai anziani.

Quei sei giorni, in cui Roberto è stato ammassato in un vagone freddo, sporco, stracolmo di persone, diventano oggi il simbolo di un’anima pura strappata alla vita a causa degli orrori del nazismo.

A cura di Giulia Pezzella

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