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Poeti | Fadwa Tuqan

Se è vero che “la poesia tradotta è come farsi la doccia con l’impermeabile” – come recita uno strano poeta giapponese nel film Paterson, di Jim Jarmusch –, allora siamo condannati, ogni volta che leggiamo una poesia straniera in italiano, a perdere qualcosa, a non cogliere il segreto profondo che si cela tra le parole che l’autore ha scelto con la propria, intima sensibilità linguistica.

A maggior ragione questo discorso vale per lingue che difficilmente si possono comprendere senza anni di studio, come l’arabo, ad esempio. Fadwa Tuqan, poetessa palestinese, merita però dell’attenzione. Certo, la distanza dall’arabo non è solo e propriamente linguistica, ma anche grafica: il testo originale a fronte, infatti, non può che apparirmi come un ammasso di caratteri indecifrabili da leggere da destra a sinistra. Il rischio è sempre lo stesso, e qui maggiore, col filtro della traduzione che leviga il testo e lo ripulisce dalle sfumature, lasciando, nel migliore dei casi, uno scheletro che possa dare solo un’idea parziale di ciò che il poeta voleva dirci. Si rischia, insomma, l’appiattimento. Ma certi versi della Tuqan trasmettono un qualcosa che rimane, un nocciolo di albicocca – per usare un’immagine cara a molti poeti palestinesi – che si sedimenta nel corpo, e riposa. Cosa succeda là dentro, non lo sapremo mai. “La poesia è poesia quando porta con sé un segreto”, aveva detto Giuseppe Ungaretti.

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Fadwa Tuqan

Fadwa Tuqan, in particolare, sembra porsi a metà strada tra due scuole di pensiero, all’interno della letteratura palestinese: da una parte, la rassegnazione pessimista degli esuli, dall’altra la sete di ribellione degli intellettuali rimasti in Medio Oriente. Se, per esempio, suo fratello Ibrahim è un po’ l’emblema del poeta politicizzato, Fadwa Tuqan si preoccupa di più degli individui colpiti dalla tragedia della guerra, e non della collettività, delle fazioni, delle etichette. Tuqan non fa appelli alla rivolta a un “popolo palestinese”, o invettive contro un “nemico straniero”, ma preghiere intime in cui ognuno può immedesimarsi. Ciò non toglie che dai versi di Fadwa Tuqan traspaia un forte senso di attaccamento a una patria, a un paese tanto desiderato che, tuttavia, non esiste. Ma i toni non sono altisonanti, bensì, intimi, pacati, come la poesia qui sotto testimonia. La leggerezza suggerita da elementi come l’erba, il fiore o il bambino ha poco a che vedere con eventi tumultuosi, seppur legittimi, come l’Intifada.

Curioso, infine, è il legame che Fadwa Tuqan ebbe con Eugenio Montale, che conobbe a Roma nel 1960 – nell’ambito di una conferenza organizzata da Ignazio Silone – e al quale dedicò una poesia. Si tratta di un incontro tra due poeti celebratissimi dai rispettivi connazionali, nonostante le evidenti peculiarità di entrambi rispetto al panorama poetico a loro circostante.

Una poesia:
Mi basta
Mi basta morire nella mia terra
esservi sepolta
dissolvermi e annientarmi
resuscitare erba in questa terra
rinascere fiore
sfogliato da un bambino cresciuto nel mio paese
mi basta essere nel grembo del mio paese
polvere
erba
fiore.

Un libro: Francesca Maria Corrao, a cura di, In un mondo senza cielo – Antologia della poesia palestinese, Firenze, Giunti, 2015

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