Immagina, solo immagina, per non dimenticare

Immagina, solo immagina:

Hai otto anni, i tuoi genitori si trovano in salotto, stanno discutendo; tu sei nella tua camera impegnato a giocare con il tuo trenino, cerchi di non prestare attenzione ai loro discorsi, non li capiresti, ma tendi comunque un orecchio per sentire. Parlano di una battaglia e di un signore che, a quanto pare, li odia e vuole fargli del male. Non capisci. Torni al tuo treno: i passeggeri non possono aspettarti, faranno tardi al lavoro.

Senti bussare alla porta, subito dopo dei forti rumori e delle voci a te estranee, parlano tedesco, tu non lo conosci. Senti tua madre urlare, ti avvicini alla porta della camera, togli la chiave e sbirci dalla minuscola fessura: ci sono tre uomini a casa tua, sono tutti vestiti allo stesso modo e hanno un simbolo strano appuntato sulla spalla, i loro lineamenti sono marcati e pesanti, non sembrano molto gentili. Li vedi mentre afferrano bruscamente i tuoi genitori e non ne capisci il motivo. Senti dei passi venire verso di te, sali sul tuo letto e fai finta di non aver visto niente; entra tua madre. Ti dice di prendere solo le cose più importanti e di seguirla, ma non è gentile come sempre, sembra spaventata. Non vuoi andare, ma non hai scelta, opponi resistenza così tua madre ti trascina fuori senza nemmeno farti prendere i tuoi giochi preferiti: hai solo il trenino che ti è rimasto in mano.

Le guardie vi trascinano fuori, tieni stretta la mano di tuo padre: hai paura. Ti buttano tra una massa di persone e ti conducono ad una stazione, dove ti forzano a salire su un treno: manca lo spazio, manca l’aria, le persone sono tutte ammassate, non vedi niente, ti manca il respiro ma sei su un treno, il tuo più grande sogno si sta realizzando: sei a bordo di un vero treno.

“Forse questi uomini non sono poi così cattivi” pensi “mi hanno messo su questo treno, forse anche queste altre persone avevano il mio stesso sogno, ma se è così perché piangono? Dovrebbero essere felici, forse piangono dall’emozione. Mi sbagliavo, questi uomini non sono cattivi, sono qui per realizzare i miei sogni!”

Continui a pensarlo fino a quando non arrivi in un campo immenso pieno di baracche e di fango, dove ti fanno spogliare e ti portano in un grande stanzone: “mi sbagliavo davvero, queste persone sono fantastiche, mi tengono anche pulito.”

Ma quelle persone non ti vogliono far lavare e non sono lì per realizzare i tuoi sogni, lo capisci solo quando al posto dell’acqua scende un’altra sostanza e appena ti sfiora la pelle vieni invaso dal dolore, un dolore atroce che ti corrode la pelle e l’anima. Non vedi più niente e urli, urli chiedendo aiuto, urli e urli, ma le tue urla si mischiano con quelle delle altre decine di persone che stanno venendo massacrate con te, urli e continui ad urlare fino a quando non cadi e dalla tua bocca non esce più niente, vuoi continuare a gridare ma non ci riesci, così chiudi gli occhi e ti lasci andare.

Immagina, solo immagina:

Ti hanno appena costretto a scendere dal treno, ti hanno già separato da tua moglie, non sai dove sia né se sia viva o morta. Ora tieni stretti per mano i tuoi due figli, non sai cosa potrà accadere, temi per la tua vita, ma soprattutto per la loro.

Delle guardie ti urlano di metterti in fila insieme agli altri. Esegui gli ordini. Cominciano a smistare le persone dividendole in due gruppi. Arriva il tuo turno: mandano i tuoi figli a destra e tu a sinistra, capisci che moriranno. Ti devi separare da loro ma non riesci, il più piccolo comincia a piangere e una guardia ti urla di farlo smettere, ma lui non si ferma. L’SS tira fuori la pistola.

Ti invade un senso di malessere che non riesci a reprimere; sai qual è il suo destino e non puoi evitarlo, provi a farlo calmare ma invano. Senti la pistola caricarsi, il mondo intorno a te si ferma, non sai cosa fare, l’ansia e la paura ti stanno divorando, urli contro tuo figlio per farlo smettere di piangere, lo preghi di farlo, ti inginocchi davanti a lui e lo scuoti, lo abbracci, continui a dirgli di smettere ma lui è troppo piccolo e spaventato: non capisce. La guardia preme il grilletto.

Si ferma tutto. Il tuo volto si riga di lacrime, porti al petto il corpo sanguinante e inerme di quello che era il tuo bambino, le tue grida di dolore si fanno spazio tra i mormorii della gente, le lacrime amare scorrono lentamente sul tuo volto trascinando via la polvere e la sporcizia, ma non servono a cancellare il dolore.

Le SS ti strappano il corpo del bambino e lo gettano tra gli altri cadaveri come se fosse un oggetto, non riesci a realizzare quanto è appena successo, eppure è accaduto: hanno ucciso davanti a te il tuo bambino, gli hanno strappato la vita e lo hanno fatto con una tale leggerezza che non ti pare possibile.

Continui a chiederti perché è successo proprio a te, a te che non avevi mai commesso un crimine, a te che avevi sempre lavorato con dedizione, a te che non avevi mai fatto male a nessuno, a te che ti preoccupavi sempre degli altri.

È successo a te, così come ad altre migliaia di persone, perché sei ebreo e se te lo stai chiedendo, no, non è assolutamente una colpa, sono solo le idee di un pazzo che ti hanno portato via tuo figlio.

Immagina e solo immagina, perché a te non è successo, ma a milioni di persone sì. Hanno vissuto  il dolore, l’angoscia, il terrore che si prova a stare rinchiusi in una prigione nella quale devi lavorare instancabilmente per tutto il giorno, essendo mal nutrito e non sapendo se le persone a cui tieni di più al mondo sono ancora vive.

Quindi immagina, leggi, informati, fai quel che devi fare, affinché la shoah non venga mai dimenticata e se puoi testimonia, testimonia come hanno fatto tante persone, perché sono voci come quelle di Liliana Segre e di Primo Levi che ci aiutano a ricordare:

 

Verso la fine dell’estate dei 1938, la mia vita d’improvviso cambiò. Avevo otto anni […]. 

Un giorno, mentre eravamo a tavola insieme ai nonni, sentimmo alla radio che da novembre gli ebrei avrebbero subito una serie di restrizioni. 

Quel momento è rimasto impresso nella mia memoria come un fermo immagine. Di quell’attimo ricordo tutto: il volto della domestica ritta in piedi che serviva dal piatto da portata, i dettagli della sala da pranzo, l’ordine in cui eravamo seduti, le espressioni di mio papà e dei miei nonni. Mi guardarono e mi comunicarono che non avrei più potuto andare a scuola. […]  Ho sempre avuto un temperamento molto socievole ed ero piena di amiche: improvvisamente venivo espulsa dal mio mondo.

Liliana Segre

 

Sembra che tutto vada come ogni giorno, il camino della cucina fuma come di consueto, già si comincia la distribuzione della zuppa. Ma poi si è udita la campana, e allora si è capito che ci siamo. […]

Qui, davanti alle due porte, sta l’arbitro del nostro destino, che è un sottufficiale delle SS. Ha a destra il responsabile della baracca, a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum [il dormitorio] nel freddo dell’aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda all’uomo alla sua destra o all’uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una baracca di duecento uomini è «fatta», e nel pomeriggio l’intero campo di dodicimila uomini.

Primo Levi

A cura di Vittoria Bencini

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