Dopo tre anni di silenzio e nel bel mezzo di una pandemia, Christopher Nolan è riemerso dalle acque di Dunkerque per trascinare il grande pubblico nella guerra ancora non accaduta di Tenet; l’ultima, attesissima fatica del cineasta britannico è approdata nelle sale il 26 luglio, facendosi carico di un’enorme responsabilità: riportare le persone al cinema e dare nuovo respiro ad un settore inevitabilmente colpito dal lockdown.
Coerentemente con la poetica portata avanti da Nolan nel corso degli anni, tema portante di Tenet è il tempo; in Memento esso veniva destrutturato e ricomposto, in Inception rallentato e dilatato, in Interstellar relativizzato e sdoppiato, adesso la domanda che viene posta è: “Cosa accadrebbe se si potesse riavvolgere il tempo? E cosa accadrebbe se, riavvolgendolo, si potesse mettere mano alla linea temporale?”. Così in Tenet il tempo viene invertito: passato, presente e futuro si accavallano, giocando con simmetrie e paradossi temporali.
Al centro di questo intrigo tra anteriorità e posteriorità vi è il Protagonista (John David Washington), un agente della CIA che viene reclutato da una misteriosa organizzazione per sventare la minaccia di una guerra potenzialmente apocalittica. L’unica arma fornitagli per portare a termine la sua missione è “Tenet”, una parola che “può aprire molte porte, alcune saranno giuste, altre saranno sbagliate”. Aiutato dal brillante Neil (Robert Pattinson), il Protagonista dovrà quindi scontrarsi con Andrei Sator (Kenneth Branagh), spietato oligarca russo venuto in possesso di una futuristica tecnologia nucleare, in grado di modificare l’entropia della materia e così “invertirla”.
Nolan, sceneggiatore oltre che regista, occulta all’interno della pellicola un gran numero di dettagli e simboli (primo fra tutti lo stesso titolo, ispirato alla misteriosa iscrizione palindroma del Quadrato del Sator), facendo del suo undicesimo film un vero e proprio rompicapo cinematografico, nonché il suo lavoro più cerebrale dai tempi di Inception.
Ma la complessità che contraddistingue Tenet non dipende né dal suo simbolismo, né dalle teorie scientifiche alla sua base, quanto invece dal fatto che la velocità nella descrizione dei passaggi più articolati lascia spaesati, soprattutto a causa di dialoghi che talvolta oscillano dall’incomprensibile al banale.
Si nota inoltre come, se nei suoi lavori precedenti la volontà narrativa di Nolan andava di pari passo con la componente emotiva, la razionalità di Tenet toglie un po’ di cuore al film e, nonostante le buone interpretazioni da parte di tutto il cast, l’estremizzazione dei concetti fisici trasforma i personaggi quasi in automi che si muovono in un “mondo crepuscolare”, come essi stessi ripetono più volte parafrasando Walt Whitman.
Ma la carente componente umana e la percezione disorientante di alcune inversioni temporali trovano il loro contrappasso nella forza dell’apparato visivo e sonoro, grazie anche alla fotografia fredda e insatura e alla colonna sonora (composta da Ludwig Göransson), che incalza e tiene alta l’attenzione dello spettatore correndo dietro ai personaggi.
A ciò si aggiungono l’innegabile perizia di Nolan con la macchina da presa e la scelta di usare il formato IMAX, che, oltre ad accrescere la spettacolarità dell’azione, ci ricorda quanto le sale cinematografiche siano importanti, anche in un’epoca in cui lo streaming pone quasi tutto a portata di mano.
In definitiva, Tenet ha confermato l’abilità di Christopher Nolan come maestro della forma, ma è ben lontano dai picchi di qualità da lui raggiunti con pellicole come Inception o Interstellar.
Tuttavia, soprattutto per la grande esperienza estetica che offre, rimane un film godibile, se lo si guarda seguendo il consiglio che lo stesso Nolan dà allo spettatore tramite uno dei suoi personaggi principali: “Non cercare di capire, sentilo”.
A cura di Bianca Formichi