Schwa e asterischi: strumenti inclusivi o polemica inutile?

  Questo articolo fa parte del numero 25 del MichePost, uscito in formato cartaceo l’8 maggio 2021


Strumenti inclusivi

 di Elisa Salvadori

Esistono poche situazioni più spiacevoli del momento in cui un giornalista deve decidere se usare il termine “avvocato” o “avvocatessa” per definire una donna che rappresenta un proprio cliente in tribunale. Per non parlare dell’imbarazzo di chi si trova a leggere ad alta voce parole come “amic*”, “ragazz*”, “student*”. 

Alcuni ritengono che queste attenzioni lessicali siano solo inconvenienze: ai nostri tempi, dicono, non ci si preoccupava se si dovesse dire “signor giudice” o “signora giudice”, ma solo di non finircisi davanti! Dopo le terribili battute a spese di portiere (ragazze che, nel gioco del calcio, difendono la porta) e sindache, iniziano i commenti sulla cacofonia di tali termini, su quanto essi si dimostrino un’inutile forzatura: non importa il genere, ma solo l’abilità del lavoratore (oh, se fosse davvero così). Sulla questione dell’asterisco, utilizzato per includere anche individui non binari, le critiche si fanno più aspre e l’ignoranza più profonda. La scelta di lessico neutro, invece che specificamente maschile o femminile, è sempre stata contrastata: un esempio recente è individuabile nel tweet in cui la famosissima scrittrice J.K. Rowling deride l’uso del sintagma “people who menstruate (persone che hanno le mestruazioni)” al posto di “women (donne)”. In breve, il rifiuto di servirsi di parole declinate al genere giusto nasce dall’ignoranza o dal puro disprezzo. 

Naturalmente dietro a tutto ciò si trova il solito problema: la paura della novità e della diversità. Nonostante l’iniziale ed eventuale dubbiosità, usufruire del lessico adatto è necessario al progresso della società. Gli esseri umani vivono tramite le parole, che hanno la straordinaria capacità di plasmare il mondo: per esempio, nel descrivere uno stesso oggetto, qualcuno potrebbe definirlo “di un orribile colore giallastro” e qualcun altro “di una sfumatura gialla brillante”. I racconti hanno sempre assunto la funzione di mostrare cosa è possibile e cosa no, cosa si può fare e cosa è proibito; i personaggi ispirano e insegnano, le loro azioni ammoniscono e consigliano. Lo stesso avviene nella vita reale, nel linguaggio di tutti i giorni. Se una bambina sente il termine “ingegnera” o “ministra”, saprà che può diventarne una e avrà meno paura; un asterisco potrebbe aiutare qualcuno a realizzare la propria identità e a sentirsi meno sol*. Scrivere e dire parole ammette l’esistenza di ciò che quella parola rappresenta: avviamoci dunque alla vera inclusione, lessicale e sociale. 

 

Polemica inutile

di Emma Ester Barugolo

Dagli inizi di aprile il comune di Castelfranco Emiliano nella comunicazione tramite i canali social ha introdotto una soluzione linguistica ‘più inclusiva’: l’uso della schwa. «A partire da mercoledì 7 aprile moltə nostrə bembinə e ragazzə potranno tornare in classe». Nel sentirlo dire Alma Sabatini probabilmente si è rivoltata nella tomba. Lei che in tempi non sospetti, correva l’anno 1987, si fece autrice di un trattato di linguistica che si proponeva di “dare visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile”. Il testo in questione è Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana ed esorta a declinare al femminile i mestieri che si possono declinare, evitare di usare sempre il maschile plurale, cercare di selezionare il più possibile sostantivi privi di marca di genere, come persona, individuo o vittima, o ricorrere, se necessario, a forme alternative.

Se la professoressa Sabatini non se la prende con la declinazione è perché, al contrario di altre, l’italiano è una lingua flessiva, e l’accordo che si basa sul genere grammaticale è fondamentale. Questo rappresenta una modalità di classificazione dei sostantivi in base alle caratteristiche sessuali: si tratta di un fenomeno antichissimo e presente in moltissime lingue, e pensare di poterlo evitare è utopico.

Personalmente poi non credo che il sessismo, per quanto radicato nel linguaggio, sia radicato nella grammatica. Mi spiego meglio: le lingue antiche nella loro moltitudine di vocaboli erano più inclusive, ma questo non significa che le rispettive culture non fossero profondamente sessiste. Trovo anzi allarmante che nel nostro vocabolario trovino spazio una notevole quantità di sgarberie nei confronti delle donne, e che nella nostra lingua alcuni termini, declinati al femminile, cambino di significato (a questo proposito vi invito a guardare il monologo di Paola Cortellesi Per fortuna sono solo parole).

Si arrendano quindi di fronte ai fatti i promotori di quei discorsi impronunciabili pieni di asterischi; cambiare artificialmente la struttura di una lingua è una missione impossibile (e poco opportuna e pragmatica). Risulterebbe molto più costruttivo, piuttosto, combattere per sradicare il maschilismo che si manifesta nella nostra società in forme più concrete, dalle discriminazioni sul lavoro ai femminicidi fino alle violenze domestiche.

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