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La chiusura dei teatri per un artista: intervista a Lorenzo Fratini

Lorenzo Fratini è maestro del coro del Maggio Musicale Fiorentino e ha lavorato con molte orchestre in moltissimi teatri italiani e internazionali. Il Maggio Musicale Fiorentino ha presentato al pubblico alcuni concerti, in streaming sul web e in televisione, ovviamente senza pubblico, date le regole anti Covid. Abbiamo parlato con lui della chiusura dei teatri e di cosa essa significhi per un artista. 

Lei lavora nel mondo del teatro, un campo che ha subito molto da questa pandemia. Dopo i provvedimenti emanati dal Consiglio dei Ministri anche questo, come gli altri centri della cultura, ha dovuto chiudere. Lei cosa pensa di questo?
«Quando a marzo i teatri hanno chiuso, credo fosse una risposta giusta all’epidemia che era in corso. Tuttavia ci siamo organizzati molto efficientemente, tanto che nel nostro teatro non abbiamo avuto nessun caso di contagio, anche perché ogni settimana tutti i lavoratori sono sottoposti al test sierologico, le distanze sono sempre rispettate e i dispositivi di protezione individuali sempre utilizzati. Anche al pubblico era sempre garantito un grande distanziamento, cosa che invece in alcuni luoghi, come in un negozio, non vedo. Quindi, mentre capisco le preoccupazioni iniziali, non capisco invece quelle odierne».

A livello artistico questa chiusura cosa implica: cosa significa per un cantante o per un corista dover stare fermo per lungo tempo come è successo nel lockdown nazionale di marzo, aprile e maggio?
«Un cantante solista, ma anche un corista, è come un atleta, quindi chiaramente deve sempre sottostare ad un allenamento. Lo stare fermi e ripartire inizialmente è stato duro, però devo dire che la seconda volta che abbiamo chiuso, la ripartenza è stata più semplice: abbiamo preparato il Die Schöpfung di Haydn in pochissimi giorni. Penso che i cantanti abbiano capito che anche durante le chiusure bisogna continuare ad esercitarsi. Però in un coro la cosa che manca in un periodo di fermo è il concetto di lavorare insieme, perché il lavoro singolo non ha nulla a che vedere con il lavoro di squadra: questo è l’aspetto che è mancato durante i periodi di chiusura del teatro».

Il teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha potuto pubblicare alcuni concerti e opere in live streaming, come appunto il Die Schöpfung di Haydn e l’Otello di Verdi. Da musicista le chiedo che esperienza è quella di esibirsi di fronte ad una platea vuota?
«È terribile e direi anche imbarazzante. Entrare sul palco all’inizio di un concerto e finire il concerto nel silenzio è un’esperienza nuova nella storia dei teatri italiani e l’atmosfera che regna in questo silenzio è quasi irreale. Questa è la difficoltà, poiché, anche avendo fatto un gran lavoro, una grande esecuzione, si torna a casa sempre con un amaro in bocca, perché si sente che qualcosa è mancato: il rapporto con il pubblico».

Lei si trova a contatto con una grande realtà artistica, quella del teatro del Maggio, che attira moltissime persone l’anno e che si è potuto organizzare in maniera anche diversa. Chi invece lavora in una realtà artistica più piccola, ha subito certamente di più di questa crisi. Secondo lei quindi è stata giusta o sbagliata questa chiusura così generalizzata dell’arte e della cultura che ha sicuramente penalizzato i piccoli artisti?
«La nostra fortuna è che, essendo un teatro grande, abbiamo una struttura intorno che può garantire il nostro lavoro, perché abbiamo un comitato di sicurezza, dei protocolli. Gli artisti singoli chiaramente si trovano purtroppo più in difficoltà. Conosco molti artisti singoli, anche conosciuti, che non riescono a trovare in questo periodo teatri che li accolgano, anche perché per i teatri in Italia non abbiamo una gestione univoca, ma ognuno ha la sua strategia, fino ad arrivare al punto che il Teatro alla Scala di Milano, il più importante d’Italia e uno dei più importanti al mondo, ha dovuto chiudere completamente: essendo in una zona molto colpita dal virus gli artisti non hanno potuto preparare quasi nulla per tutto il periodo. Chiaramente per un cantante o un musicista, che deve essere accolto per potersi esibire, la situazione è ancora più complicata».

Lei, oltre ad essere direttore del coro, è anche direttore del coro delle voci bianche e padre, quindi una persona a contatto con i giovani. Cosa pensa che la chiusura dei centri della cultura implicherà  per i giovani? 
«La difficoltà maggiore penso che sia e continuerà ad essere nelle relazioni sociali, anche per la scuola. Si capisce anche da questo quanto la scuola sia una componente fondamentale, che crea rapporto fra i ragazzi, e spero che l’eliminazione di questa componente non crei poi isolamento, perché adesso l’unico modo di poter parlare insieme è lo stesso che stiamo usando adesso, ovvero quello di affidarci alla tecnologia, che è un mezzo molto comodo ma che comunque non può sostituire il rapporto diretto. Contando che i giovani vivono di emozioni, empatia e di rapporto diretto tra coetanei, penso che sia una problematica da tenere molto in considerazione». 

Se adesso finisse questa pandemia e noi tutti tornassimo immediatamente alla vita normale, e nelle sue mani fosse la scelta di quale opera o concerto rappresentare, quale sceglierebbe e perché?
«Questo è l’anno beethoveniano, e Beethoven ha scritto moltissima musica da camera, musica per pianoforte e musica sinfonica, però ha scritto una sola opera: il Fidelio. Credo che quest’opera sia adatta a questo periodo, perché parla dell’amore per la libertà, l’amore di una donna per la libertà del marito che è stato incarcerato ingiustamente. Quest’opera ha un finale molto particolare, che dopo un racconto molto triste e cupo, si conclude in un Do maggiore molto luminoso e molto brillante, un finale “di buon auspicio”, che racconta di come la vita, anche dopo tristi avvenimenti, può ricominciare».

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