Su Silvia Romano

Nel villaggio di Chakama, verso la fine del 2018, accade un fatto che sconvolge tutti: una donna, giovane e forte, ch’è in Kenya da pochi mesi e che spera di portare aiuto a chi più di altri ne ha bisogno, per onorare anni di studi in campo umanistico e umanitario, viene rapita.

L’accaduto sembra colpire nel profondo milioni di italiani, i quali s’immedesimano immediatamente chi nella mamma, chi nel babbo, chi nel fratello, chi nella sorella della giovane Silvia Romano. Tuttavia per mesi non si hanno più notizie, e tutti si scordano di lei.

Diciotto mesi dopo, il Presidente del Consiglio annuncia la liberazione di Silvia, che torna a casa. A partire da questo momento l’Italia, invece che accogliere con gioia una buona notizia, sceglie di dividersi, mostrando il suo lato più becero, incivile e disonorevole.

Il fatto è questo: a Silvia è stata restituita una patria dopo mesi di prigionia e noi dovremmo soltanto esser felici del suo ritorno. Dovremmo esserne felici perché lo Stato ha dimostrato di saper agire, anche in un contesto delicato. Dovremmo esserne felici perché Silvia “Aisha” Romano è tornata a essere libera. Dovremmo esserne felici perché una famiglia ha ripreso ad abbracciarsi.

Ciononostante, non sono mancate polemiche e punti di scontro. Silvia si è rivelata il nemico perfetto per l’italiano frustrato e ignorante: donna, giovane, laureata, caritatevole e, pare, convertita all’Islam; caratteristiche per molti immeritevoli del prezzo di un presunto riscatto. Insomma, c’è chi avrebbe preferito che da quell’aereo, al posto di una persona, fosse scesa una bara.

Già, perché di alternative non ne esistono altre. O si paga il riscatto, o si lascia morire l’ostaggio. L’opzione di un intervento militare difficilmente è presa in considerazione: porta con sé rischi immani in termini di vite umane (nel gennaio del 2013 due militari francesi e un ostaggio morirono nel corso di un’operazione di salvataggio, sempre in Somalia). Pertanto, la scelta non dovrebbe risultare complicata.

Sul fatto che pagare un riscatto incentivi rapimenti, non vi sono prove a riguardo. Sul fatto che pagare un riscatto non sia giusto per chi in Kenya non c’è mai voluto andare, i dati ricordano che in un anno tutti quanti, fumatori e non, pagano 7,5 miliardi per curare chi si ammala di cancro ai polmoni. Sul fatto che pagare un riscatto sia eticamente sbagliato, si può essere d’accordo, ma già da tempo, almeno dalla fine dell’ultima guerra mondiale, è opinione comune che lo Stato debba limitarsi a un’analisi costi-benefici senza scomodare etica e morale.

Detto questo, è arrivato il momento di parlar d’altro. Una nostra connazionale ha riconquistato la libertà: è giusto gioire, festeggiare, inorgoglirsi. Ma è necessario pure mettere un freno alla sovraesposizione mediatica che continua a limitare la vita di Silvia e di chi le sta accanto. Peraltro intorno a noi il mondo non si è fermato: ad oggi non conviene distrarsi troppo a lungo.

A cura di Tommaso Becchi

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