Anche il 2019 è finito e, come l’anno scorso, ho il piacere di stilare una lista dei dieci film (uno dei quali non è propriamente “un film”) che maggiormente mi hanno colpito durante questa annata cinematografica: si sono succedute non poche sorprese e il risultato, devo dire, è ancora più soddisfacente del 2018.
Non vi è alcun tipo di ordine gerarchico (d’altronde come si fa a mettere podi o voti all’arte!?) ma semplicemente cronologico, prendendo in considerazione l’uscita italiana delle pellicole, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2019.
Suspiria, di Luca Guadagnino | 1° gennaio
È il 1977 e a Berlino Susie Bannion (Dakota Johnson) è una talentuosa danzatrice che entra nella prestigiosa scuola di danza Markos Tanz. Tuttavia non tutto è come sembra e dietro alle apparentemente benintenzionate facce delle istruttrici si nascondono dei segreti che turberanno l’ordine delle cose.
Ho visto e sentito attribuire diverse definizioni al nuovo lavoro di Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome) e non sarei assolutamente in grado di valutare quale sia la peggiore: Argento 2.0, remake, rifacimento inutile. Sebbene sia verissimo che Suspiria tragga l’ispirazione, il titolo e l’ambientazione dalla pellicola omonima diretta da Dario Argento nel 1977, i due film si differenziano per numerosi aspetti e ciascuno è eccezionale a modo proprio. Dove il maestro dell’horror indagava su un male fine a se stesso che aveva come unico scopo il suo personale sostentamento e su una figura pura e innocente scissa da tutto ciò, Guadagnino sterza completamente la marcia e ci immerge in un mondo dai più ampi orizzonti in cui la sua natura più brutale è governata da un’unica entità giudicante. “Una madre può sostituire tutti ma non può essere sostituita” recita un quadro all’inizio, ed è esattamente da qui che Suspiria si sviluppa, creando una parabola sull’origine (rigorosamente materna), sul giudizio e sulla veridicità delle nostre sicurezze.
Probabilmente il miglior film del regista palermitano, e la colonna sonora di Thom Yorke è semplicemente magnifica.
Il primo re, di Matteo Rovere | 31 gennaio
Nell’VIII secolo a. C. il Lazio è ancora un territorio selvaggio e due fratelli, Romolo e Remo (Alessandro Borghi), cercano di sopravvivere in un ambiente ostile. Durante un lungo viaggio tra foreste e paludi i protagonisti potranno chiarire il loro ruolo nel mondo, che li porterà a cambiare drasticamente la storia dell’uomo.
In Italia un prodotto del genere non si era mai visto. Matteo Rovere si era già fatto notare con le sue precedenti opere (in particolare Veloce come il vento) per una certa sicurezza nella messa in scena, ma con Il primo re ha superato ogni aspettativa. Il film riesce incredibilmente a fondere una sua natura di genere, cioè commerciale e popolare, con una più propriamente d’autore, in cui è impossibile non notare una grande maestria registica e fotografica e un coraggio nelle scelte narrative (da non dimenticare il protolatino ricostruito con il quale è interamente recitato).
Il percorso che ha portato alla fondazione di Roma, riletto in una chiave violenta, cruda ed estremamente realistica, diventa un modo per indagare sulle nostre origini: il continuativo e conflittuale rapporto con la divinità, la ragione per la quale il mondo funziona in un certo modo e il valore del sacrificio. Sono tutti temi che, elaborati in un epico progetto ispirato a Revenant e al realismo della New Hollywood, non smettono mai di stupirci.
La casa di Jack, di Lars Von Trier | 28 febbraio
Jack (Matt Dillon), intorno agli anni ’70, è un ingegnere psicopatico convinto di aver trovato l’arte nell’uccidere ciclicamente. Ci vengono così illustrati nell’arco del film 5 dei suoi spudorati omicidi, che vengono ironicamente chiamati “incidenti”, raccontati dal protagonista a un misterioso interlocutore di nome Verge (Bruno Ganz). Non tutto è però così facile e il killer dovrà presto fare i conti con le proprie colpe.
Ormai è noto, Lars Von Trier è un provocatore. L’opinione pubblica e la critica si spaccano in due quando si tratta di giudicare una sua qualsiasi pellicola, e qua io mi pongo decisamente a favore. La casa di Jack non è solo un’odissea cinematografica sulla spietatezza e sul peccato, ma anche e soprattutto un trattato filosofico sul significato dell’arte. Jack funge come alter ego del regista: un personaggio alla costante ricerca della perfezione e della sua conseguente distruzione come mezzo per raggiungere un’immaginaria purezza. Tuttavia non manca una contrapposizione: l’assassino si ostina a individuare l’arte dove questa non c’è, demolendone di fatto la sua essenza, destinata a migliorare l’insieme degli uomini e non a degradarli. È qui che Von Trier prende le distanze, facendo sprofondare questa concezione sbagliata in nientedimeno che l’Inferno dantesco.
Dolor y Gloria, di Pedro Almodóvar | 17 maggio
Salvador (Antonio Banderas) è un regista con fama internazionale che, a causa di diverse disfunzioni fisiche, non è più in grado di scrivere e dirigere. Escluso dal suo lavoro e quindi dalla sua ragione di vita, scivolerà in un vortice di dolore che verrà sanato solamente dai suoi ricordi d’infanzia.
Almodóvar si è sempre prodigato in storie passionali in cui i rapporti materni, affettivi o d’amore assumevano un ruolo centrale. Anche qui succede lo stesso, confermando il suo amore per le relazioni e i sentimenti umani, ma ingrandendo le vedute per farci assistere alla sua recondita intimità.
In questo stravolgente sguardo da vicino alla fanciullezza e alla crescita, alle sofferenze e alle glorie, il celebre autore spagnolo si racconta senza pudore per avvalorare la forza del ricordo, dei propri demoni interni e, ovviamente, del cinema stesso. Quando quasi tutto sembra perduto e la speranza si allontana progressivamente, il casuale rinvenimento del passato e dell’identità riportano Almodóvar con i piedi per terra, spingendolo a ritrovare se stesso e a rompere il muro della finzione con noi spettatori. Un punto di arrivo (e si spera non definitivo) che ci ribadisce il fine della sua poetica e che si mostra come la sua opera più personale, il suo 8½.
Climax, di Gaspar Noé | 13 giugno
Un gruppo di giovani danzatori professionisti viene chiamato da ignoti organizzatori a esercitarsi presso una scuola di danza abbandonata situata in un luogo non specificato. Una sera i ragazzi, abbandonati a se stessi, vengono misteriosamente drogati e la situazione precipiterà rapidamente in una spirale di terrore.
Titoli di coda all’inizio. Poi, “Questo film è francese ed è fiero di esserlo” grida una scritta su un’enorme bandiera francese. I titoli di testa a metà.
Noé, tra i più controversi ed estremi registi della scena contemporanea, porta continuamente lo spettatore a disorientarsi e a non realizzare concretamente ciò che sta avendo luogo. Il suo Climax è infatti un’oscura e terrificante raffigurazione delle nostre follie, dei nostri istinti più bestiali e animaleschi accuratamente riposti sotto la maschera della convivenza civile. Le sostanze stupefacenti, involontariamente assunte dai protagonisti, sono solo il mezzo che permette di scatenare i mostri che sono in loro. La danza, forse la più stregata delle arti, contribuisce inoltre a rendere ancor più inquietante il “ballo” infernale dei personaggi (non a caso è presente una VHS di Suspiria in una scena del film).
Noé ci confonde sapientemente con virtuosistiche inquadrature e interminabili piani sequenza, dipingendo così un audace ritratto della natura umana.
Too Old to Die Young, di Nicolas Winding Refn | 14 giugno
Sì, Too Old to Die Young è, almeno apparentemente ed editorialmente, una serie televisiva in dieci episodi. Ma il nuovo e rivoluzionario lavoro di Nicolas Winding Refn (Drive, The Neon Demon), uno dei registi più visionari del nuovo millennio, è a tutti gli effetti un film di tredici ore.
Martin (Miles Teller) è un enigmatico poliziotto che si ritrova in un mondo oscuro dominato solo dalla sopravvivenza e dalla sopraffazione. Determinato così a porsi come giustiziere, dovrà presto avere a che fare con i mostruosi fautori di questo sistema.
Il cinema sta mutando: internet e le nuove piattaforme streaming stanno dando luogo a un’importante metamorfosi della settima arte e questo spiazzante prodotto, così come la terza stagione di Twin Peaks o The Young Pope, ne costituiscono una prova evidente. Refn oltrepassa i limiti sia della serialità che della cinematografia per estendere il concetto di fruizione e calarci integralmente in una realtà spietata. Non esiste progresso sociale, solidarietà o benevolenza, ma unicamente una crudeltà dedita solo allo strapotere e alla prevaricazione, che per essere (invano) combattuta ha bisogno della stessa identica ferocia.
Il coraggioso autore danese continua la sua indagine sui nostri istinti più atroci rifinendo un’opera dalla forte componente estetica che mai cede al contenuto (o viceversa) e il cui stile e le cui atmosfere si ripropongono come degli indistinguibili marchi di fabbrica.
Midsommar, di Ari Aster | 25 luglio
Dani (Florence Pugh) e Christian (Jack Reynor) sono una giovane coppia che decide di seguire l’amico svedese Pelle nella sua comunità d’origine in Svezia, con l’intento di studiarla e di approfondire una tradizionale festa di mezza estate celebrata dagli autoctoni. Quest’ultima, tuttavia, prenderà una piega inaspettata e i protagonisti si troveranno in una situazione decisamente non confortante.
L’horror non è né un gioco né un genere inferiore: giovani registi autoriali come Jordan Peele (Get Out), Robert Eggers (The Witch) o in questo caso Ari Aster non hanno problemi a confermarlo. E Midsommar, il nuovo e incredibile progetto dell’autore di Hereditary, ne è un esempio lampante.
Aster sovverte i canoni trasportandoci in un incubo alla luce del sole. Non c’è alcun bisogno di colpi di scena improvvisi o di ridicoli jumpscares, ma di un’effettiva rappresentazione dei fatti che si prende tutto il tempo necessario per esporsi ai nostri occhi. La mancanza totale dell’elemento soprannaturale è proprio ciò che terrorizza di più; la comune, una vita spartita con coloro che ci stanno intorno e una macabra convivenza con la natura inducono a purificarsi e a liberarsi dai falsi dogmi che ci identificano.
Un cammino di elevazione spirituale, dunque, perfettamente coeso tra forma e contenuto, che abbatte i principi di una società fallimentare.
C’era una volta a… Hollywood, di Quentin Tarantino | 18 settembre
Siamo a Hollywood, nel 1969, e il cinema sta cambiando; tra chi ne risente in particolar modo c’è Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), un attore televisivo in declino, e il suo stuntman, Cliff Booth (Brad Pitt). Tra disillusione e speranza, spaghetti western e hippies, i due, sorreggendosi a vicenda, tenteranno di sopravvivere alla fine di un’era.
Alla prima visione ero rimasto interdetto: C’era una volta a… Hollywood mi era sembrato ben lontano dalla geniale poetica tarantiniana. Passa del tempo, ci ripenso, e alla seconda e alla terza volta me ne innamoro follemente: è impossibile da comprendere pienamente con una sola visione. Il nono, straordinario film di Quentin Tarantino è complesso, stratificato, ricco di rimandi autoreferenziali e non. Vediamo il tempo che passa, la decadenza della celebrità e del sistema che le sta attorno. Ma soprattutto vediamo la Storia con la S maiuscola che viene accostata e poi deviata dal Cinema con la C maiuscola. Eppure questa forza, sebbene sia carica di un esplosivo potere deragliante, è debole perché pronta a rigenerarsi in una forma nuova e a meravigliare con altri incantesimi.
Tarantino, ormai innegabile maestro della settima arte, riflette con un po’ di amarezza sullo stato attuale del cinema, sul suo futuro e sulla sua capacità di influenzare il corso degli eventi in una magia tale da regalarci in assoluto l’apice della sua filmografia.
The Irishman, di Martin Scorsese | 4 novembre
Frank Sheeran (Robert De Niro) è un camionista che, in seguito a un incontro con Russell Bufalino (Joe Pesci), un importante boss della malavita, inizia una vita avventurosa come suo braccio destro. Nell’arco di più di cinquant’anni il protagonista, anche grazie alla conoscenza di Jimmy Hoffa (Al Pacino), il capo del sindacato dei camionisti, potrà comprendere meglio lo scopo della propria vita.
È inutile dirlo, Scorsese è con tutta probabilità il più grande regista vivente. È da Mean Streets, passando per Taxi Driver, Toro scatenato, Quei bravi ragazzi e tanti altri fino a The Wolf of Wall Street che ci racconta le infinite contraddizioni dei suoi eroi e antieroi, mai giudicando ma sempre rispettando e relativizzando. In The Irishman il celebre autore newyorkese segue come mai aveva fatto prima personaggi e vicende dal carattere estremamente umano, non nel senso di bontà d’animo ma di incondizionata fallibilità. Si abbandonano perciò i ritmi incalzanti che avevano contraddistinto gran parte della sua filmografia per concentrarsi pacatamente su tutte quelle dinamiche a prima vista criminose ma dettate in realtà da un considerevole senso del dovere.
Demolendo qualsiasi forma di superomismo, misura quanto mai necessaria in un tempo come il nostro, Scorsese delinea impeccabilmente l’inesorabile profilo della mortalità dell’essere.
Parasite, di Bong Joon-ho | 7 novembre
In Corea del Sud la famiglia di Kim Ki-taek è appena in grado di sopravvivere. Ma grazie ad una conoscenza del figlio Ki-woo il nucleo familiare, attraverso un’elaborata catena di imbrogli, riesce a farsi assumere in qualità di collaboratori domestici dal signor Park, un ricco imprenditore. Per le due realtà, d’altra parte, la convivenza risulterà particolarmente difficile e sfocerà in strana e drammatica serie di eventi.
Parassiti. Già, è questo che sono i componenti della famiglia Kim, ben intenzionati e ben consci di esserlo, pronti a tutto pur di migliorare la loro miserabile condizione. Schiacciati dalla povertà ma mai disillusi, addirittura scherzosi e ironici su tutto. E infatti il magistrale film di uno dei maestri del nuovo cinema sudcoreano, Bong Joon-ho, inizia e si sviluppa proprio come un’esilarante commedia nera tratteggiata da un voluto velo surrealistico. E quando meno ce l’aspettiamo, quando riteniamo di star assistendo a tutt’altra storia, Parasite devia totalmente e si trasforma in una sorprendente e imprevedibile esposizione dello spaventoso stato in cui versa la popolazione. Una minima parte aliena dai peggiori problemi che affliggono la maggiorianza, “gentile perché ricca”, che calpesta letteralmente e peggio ancora inconsapevolmente le teste dei più sfortunati.
Bong ha diretto una pellicola potente, profondamente politica e quanto mai necessaria, destinata a rimanere nel tempo per l’universalità del contenuto e, soprattutto, per l’originalità stilistica e narrativa.
A cura di Luca Parisi