In Italia negli ultimi tempi si rivolge lo sguardo al futuro, un po’ più in là della punta del proprio naso. Chissà se perché il presente è troppo buio e pensare all’avvenire ci fa bene, o perché si vuole lasciare qualcosa di più alle generazioni future che un pianeta devastato e una marea di debiti. Qualsiasi persona dotata di un po’ di lungimiranza sarebbe concorde nell’affermare che il futuro cammini sulle gambe delle nuove generazioni, degli studenti. È la scuola il luogo in cui si costruisce ciò che verrà, un mattoncino dopo l’altro. Scuola è dove vengono forgiate le menti dei cittadini di domani. Scuola è molto più di un ammasso di nozioni dispensate a blocchi. Non una catena di montaggio, non una macchina che si spegne e si riaccende quando fa comodo. Scuola è anzitutto una comunità di persone, di diverse vedute, ideali, interessi, che si fondono tra loro dando vita ad un mosaico perfetto perché imperfetto. Scuola è il più grande esercizio di libertà. Questo, però, ultimamente, in molti paiono esserselo dimenticato.
È passato oltre un anno dalla conferenza stampa durante la quale l’ex ministra dell’istruzione Lucia Azzolina annunciava la sospensione dell’attività didattica in presenza in tutt’Italia per le scuole di ogni ordine e grado, ma la situazione attuale è simile. Il ritorno tra i banchi è stato un tema caldo per tutta l’estate scorsa, tuttavia a settembre le scuole non erano pronte per la ripartenza; c’erano ancora dei nodi da sciogliere, a partire dal problema dei trasporti e della sorveglianza attiva, i dati erano approssimativi o assenti. Ciò si è presto tradotto in un ritorno alla didattica a distanza per gli studenti delle superiori di tutto il paese. Dopo un non poco dibattuto e agognato ritorno in classe − sebbene al 50% − anche per questi ultimi, a distanza di quasi tre mesi, circa 7 milioni di ragazzi in tutt’Italia sono ripiombati nell’incubo della DAD, il più grande stop da marzo scorso.
«C’è un’emergenza che dobbiamo affrontare subito ed è quella delle scuole», queste le parole di Agostino Miozzo, ex coordinatore del Cts e attualmente consulente del ministro dell’istruzione Bianchi, in un’intervista al Corriere della Sera. Non mi limiterò a dire che la didattica a distanza sia noiosa, difficile da seguire e demotivante, sebbene si tratti di affermazioni assolutamente vere. La didattica a distanza non solo non è paragonabile a quella in presenza, ma è anche nociva per la società. Dall’indagine “I giovani ai tempi del Coronavirus”, condotta da IPSOS per Save the Children, su un campione di adolescenti di età compresa fra i 14 e i 18 anni, emerge che per il 28% degli intervistati almeno un compagno di classe abbia smesso di seguire le lezioni dal lockdown della scorsa primavera. 34mila sarebbe – secondo Save the Children − il numero di giovani che andranno ad allungare la lista dei dispersi dalla scuola alla fine di questo difficile anno scolastico. Proprio quei ragazzi, abbandonati e lasciati a sé stessi, nei luoghi dove la scuola è l’unico presidio di legalità, alle volte finiscono per diventare manodopera per la criminalità organizzata. A questo drammatico dato si aggiunge il fatto che la didattica a distanza, non avendo raggiunto tutti in maniera omogenea, non ha fatto altro che accrescere le diseguaglianze e le difficoltà dei ragazzi provenienti da contesti disagiati. In Italia il 12,5% dei minori si trova in condizioni di povertà assoluta, fattore che purtroppo alimenta il fenomeno della povertà educativa.
Si cadrebbe in errore, dunque, osservando la pandemia soltanto da un punto di vista puramente scientifico. Si tratta di una crisi ben più ampia e complessa, sarebbe riduttivo e controproducente fermarsi soltanto a quella sanitaria. Inoltre non ci sono evidenze scientifiche che dimostrino che l’impatto della scuola sulla curva dei contagi sia stato determinante. In un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, che prende in considerazione un periodo che va dal 24 agosto al 27 dicembre 2020, infatti, si legge: «Allo stato attuale delle conoscenze le scuole sembrano essere ambienti relativamente sicuri, purché si continui ad adottare una serie di precauzioni ormai consolidate quali indossare la mascherina, lavarsi le mani, ventilare le aule, e si ritiene che il loro ruolo nell’accelerare la trasmissione del coronavirus in Europa sia limitato». La scuola viene scagionata anche da uno studio condotto da una squadra di epidemiologi, medici, biologi e statistici, sulla base dei dati raccolti tra la ripresa dell’attività didattica in presenza e l’8 novembre, su un campione pari al 97% delle scuole italiane. Secondo lo studio l’impennata della curva dei contagi osservata tra ottobre e novembre non è imputabile alle lezioni in presenza. L’incidenza di positività tra gli studenti di elementari e medie è inferiore del 40% rispetto alla popolazione adulta, mentre tra quelli delle superiori del 9%. Meno dell’1% dei tamponi eseguiti negli istituti scolastici ha avuto esito positivo. Alla luce di ciò trattare la scuola come una dimensione a sé stante e affermare che vi sia il rischio zero non sarebbe corretto, allo stesso modo non sussiste il fatto che i ragazzi possano essere il motore del contagio.
Con la diffusione delle varianti la situazione è cambiata; tuttavia l’epidemiologa e biostatistica Sara Gandini sostiene che tali tendenze si riconfermino. Per i giovani, dunque, i benefici della scuola in presenza superano di gran lunga i rischi, soprattutto col corpo docente vaccinato. Eppure le scuole sono state a lungo chiuse, nell’ottica di una politica di non priorità alla didattica in presenza. Agostino Miozzo si è addirittura sbilanciato nell’affermare: «Molti politici hanno scelto di sacrificare la scuola come segnale di efficiente reazione in risposta all’emergenza». Se col nuovo governo abbiamo potuto osservare un cambio di passo, la realtà resta la stessa. La pandemia ha semplicemente messo in evidenza le inevitabili fragilità di un paese che troppo a lungo non ha dato all’istruzione importanza, non ha investito nel proprio futuro.
A cura di Alessia Prunecchi