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La deriva democratica

 Questo articolo fa parte del numero 24 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 19 febbraio 2021


Parlando di democrazia come di un regime politico contrapposto ad ogni altro di tipo autocratico, penso sia doveroso definirla il più grande prodotto della società di tutti i tempi. Filosofi, sociologi e politologi di ogni epoca hanno speso fiumi e fiumi di inchiostro cercando di trovarne la più opportuna definizione e la completa realizzazione; tuttavia credo sia sufficiente, per rendere l’idea di regime democratico, ricorrere alla più minima delle definizioni, attingendo a quella data da Norberto Bobbio nel suo saggio Il futuro della democrazia. Un regime democratico è un regime politico caratterizzato da un insieme di regole che stabiliscano chi e in quali modalità debba prendere decisioni collettive. In un sistema democratico tale compito spetta, direttamente o indirettamente, ad un numero molto alto dei membri della collettività. Dobbiamo, dunque, immaginarci la democrazia come un regime dove il potere è ascendente ed il popolo è sovrano ed esercita la propria sovranità direttamente o indirettamente.

Nel primo caso parliamo di democrazia diretta, la prima forma di democrazia concepita nell’Atene del VI secolo a.C., dove l’Ecclesia, assemblea della quale facevano parte tutti i cittadini adulti della città, discuteva i progetti di legge proposti dalla Bulè. Nel secondo caso trattiamo di democrazia indiretta, la forma di democrazia vigente nei moderni Stati democratici, nei quali le decisioni non sono prese direttamente dai membri della collettività, bensì da un gruppo di rappresentanti da essa eletti. Nella sua opera Il contratto sociale Rousseau afferma che «la sovranità non può essere rappresentata», sostenendo che in una democrazia indiretta il popolo sia sovrano soltanto al momento delle elezioni e, successivamente, torni ad essere suddito. Il problema della crisi di rappresentanza che solleva Rousseau con questa affermazione è quanto più attuale. Molti degli oppositori del referendum costituzionale tenutosi lo scorso settembre, infatti, hanno lamentato un’eccessiva riduzione della rappresentanza democratica derivante dal taglio dei parlamentari. Tuttavia gli oggettivi ostacoli che si abbatterebbero su una democrazia diretta negli Stati moderni sono chiari agli occhi di tutti e la possibilità di un ritorno alla democrazia diretta mediante la computer-crazia è alquanto surreale. Ciononostante, secondo Bobbio, l’ipotesi di un allargamento della democrazia rappresentativa non è insensata, nella misura in cui ciò non porti ad una democrazia diretta.

Resta il fatto che in ogni democrazia, diretta o indiretta che essa sia, il ruolo del cittadino è fondamentale. Nella sua opera Considerazioni sul governo rappresentativo, John Stuart Mill distingue i cittadini in attivi, quelli interessati alla politica, che si fanno domande e pretendono risposte adeguate, e passivi, quelli indifferenti, facilmente governabili e manipolabili. Inutile precisare che la democrazia ha bisogno dei primi e, oserei dire, è messa in pericolo dai secondi. Tale concetto, a parer mio, è ben reso dall’affermazione di Rousseau: «Non appena qualcuno dica degli affari di Stato: che me ne importa?, si può essere sicuri che lo Stato è perduto». Tuttavia la dilagante apatia dei cittadini nei confronti della politica, che si manifesta alle urne con l’astensionismo, è un dato di fatto. Eppure Bobbio interpreta l’astensionismo non necessariamente come un fattore negativo. Il politologo, infatti, vede nell’apatia politica una “benevola indifferenza” e non un rifiuto delle istituzioni.

Affinché il cittadino possa essere sovrano deve essere istruito alla cittadinanza e alla democrazia. Piero Calamandrei, uno dei fondatori del Partito d’Azione, nonché padre costituente, affermò: «Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale». I giovani di oggi saranno i cittadini di domani, dunque è da essi che dipende il futuro della democrazia. Tuttavia oggigiorno sono proprio le tendenze antidemocratiche di quest’ultimi a far preoccupare. Le nuove generazioni non hanno provato sulla propria pelle una dittatura, non sanno cosa sia la “non democrazia”. Nella democrazia ci sono nate, non hanno fatto sacrifici né messo a rischio la propria stessa vita per ottenerla. Colgono il frutto del seme faticosamente piantato da chi ha lottato per loro, ma senza fatica, dandolo quasi per scontato. I giovani non hanno sete di democrazia. In una società sempre più polarizzata, dunque, non sorprende che sviluppino tendenze pericolose per il futuro dei regimi democratici. Oltre 2/3 dei giovani americani non ritiene essenziale vivere in un regime democratico, di questi il 25% reputa la democrazia un sistema politico sbagliato. Nel 2016 solo il 19% di loro riteneva inopportuno che l’esercito prendesse il potere nel caso il Governo si fosse dimostrato inadeguato. In generale possiamo affermare che tra i giovani serpeggi una crescente sfiducia nei confronti della democrazia in favore di leader autoritari e tecnocrazie.

Che siano le nuove generazioni a subire maggiormente il fascino di regimi autocratici non è un mistero. Basti pensare all’esperimento sociale condotto dal Professor Ron Jones in una classe di storia del secondo anno della Cubberley High School di Palo Alto, in California, nelle prime settimane dell’aprile del 1967. L’esperimento aveva lo scopo di mostrare agli studenti l’attrattiva esercitata dal nazismo sui cittadini tedeschi. Jones iniziò sottoponendoli ad una ferrea disciplina, che ne migliorò significativamente l’efficienza; li convinse che la democrazia fosse fallimentare e impose loro la propria autorità. Successivamente diede all’esperimento il nome “La Terza Onda” e creò un saluto simile a quello nazista. Dal terzo giorno il movimento iniziò a vivere di vita propria: si unirono studenti da tutta la scuola e i partecipanti del corso di storia aumentarono. Ad ogni membro venne consegnata una carta e ognuno ricevette un incarico. Alcuni studenti giunsero addirittura ad informare il Professore della violazione delle regole da parte di altri membri, comportamento che lo lasciò sorpreso e destabilizzato. Il quarto giorno Ron Jones, conscio che la situazione gli fosse sfuggita di mano ma al contempo consapevole di aver trovato conferma della propria tesi, decise di porre fine all’esperimento. L’allarmante esito dell’esercitazione indubbiamente fa riflettere. La democrazia è costantemente sotto attacco.  

La situazione non è certo migliorata con la pandemia. Dall’inizio dell’emergenza l’integrità dei regimi democratici è stata duramente minata. Secondo un rapporto intermedio dell’International IDEA, Istituto Internazionale per la Democrazia e l’Assistenza Elettorale, a marzo 2020 il 59% dei Paesi del mondo ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, conferendo all’esecutivo poteri straordinari. Le misure adottate dagli Stati per far fronte alla diffusione del Covid-19, inoltre, hanno spesso comportato la limitazione temporanea di libertà civili fondamentali e il rinvio delle elezioni. In generale possiamo affermare che dall’inizio dell’emergenza abbiamo assistito ad un inasprimento delle tendenze autocratiche in Paesi già di per sé non democratici. Ma non solo, l’emergenza sanitaria ha messo a nudo la fragilità e la debolezza di democrazie apparentemente sane e forti, una fra tutte gli Stati Uniti. Tuttavia, secondo il rapporto, la pandemia ha anche dimostrato la resilienza e la capacità di rinnovamento della democrazia che, malgrado tutte le promesse non mantenute, le difficoltà governative, le fragilità, dà prova di essere l’unica forma di governo legittima. Come disse Sandro Pertini: «È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature».

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