La libertà in Cina

 Questo articolo fa parte del numero 23 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 30 ottobre 2020


La libertà è il cuore di tutti i valori del mondo. Libertà d’espressione, di stampa, di religione, di assemblea, di associazione, di migrazione, di sciopero e manifestazione, sono tutti componenti fondamentali e concreti della libertà. Se non vi è libertà è impossibile creare una moderna società civile.”

È questo il primo principio affermato dalla Charta 08, manifesto pubblicato il 10 dicembre 2008 da 303 intellettuali cinesi, in cui si proponeva di attuare varie riforme, come la separazione dei poteri o la libertà di espressione, volte al rispetto dei diritti umani.

La Cina, però, sembra ancora ben lontana dal seguire una linea liberal: se da un lato, dopo la morte di Mao, si è aperta a una significativa modernizzazione del Paese, scrollandosi di dosso quell’immagine di “gigante contadino” che l’aveva contraddistinta fino agli anni ’70 del ‘900 e diventando “fabbrica del pianeta”, dall’altro non ha saputo (o meglio, chi al potere non ha voluto) realizzare politiche di democratizzazione.

Esempio lampante della mancanza dei diritti umani è la situazione di Hong Kong e, in particolare, la recente legge sulla sicurezza, che punisce il dissenso con condanne fino all’ergastolo. Essa venne votata durante la notte del 30 giugno non dal Consiglio Legislativo della regione, assemblea semi-democratica teoricamente preposta all’emanazione delle leggi sul territorio, ma dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, organo tutt’altro che democratico, i cui membri vengono nominati e rispondono all’unica camera cinese, rappresentata per quasi tre quarti dal Partito Comunista. La norma, che si inserisce in un clima infiammato dalle forti proteste che si susseguono nella città dalla Rivoluzione degli ombrelli e dalla proposta di legge sull’estradizione, risalente ad un anno e mezzo fa, ha provocato un “esodo” dei principali leader democratici come Joshua Wong, già protagonista delle manifestazioni del 2014.

A complicare ulteriormente la situazione ci pensa il coronavirus, poiché le elezioni programmate per la metà di settembre di quest’anno, che avrebbero visto, secondo i sondaggi, stravincere l’opposizione liberaldemocratica con oltre il 60% dei voti, sono state rimandate a settembre 2021 per l’esponenziale aumento dei casi. Rimandata anche, quindi, un’eventuale abrogazione di questa legge.

A tenere banco, oltre alla questione di Hong Kong, è anche la spinosa situazione di Taiwan. La piccola nazione insulare, nata dalla fuga dei nazionalisti guidati da Chiang Kai-shek a Formosa nel 1949, anche se attualmente è riconosciuta da solo 15 Stati e non siede nelle organizzazioni internazionali, commercia con numerosi Paesi e intrattiene relazioni, in particolare, con gli Stati Uniti. Taiwan, infatti, ha ufficializzato pochi giorni fa l’acquisto di armi dagli Usa per il valore di 1,8 miliardi di dollari, rispondendo così all’intensificazione della presenza, in particolare nelle ultime settimane, di caccia cinesi nei cieli delle isole.

A deteriorare il rapporto fra la il Paese governato da Xi Jinping e la nazione insulare c’era anche stato, a inizio settembre, l’annuncio del nuovo passaporto di Taiwan: nella copertina campeggia a caratteri cubitali Taiwan, mentre la scritta Repubblica di Cina in inglese è stata rimpicciolita all’estremo attorno al sole dai dodici raggi. Pechino, interpretando questo atto come una pura e semplice provocazione, quasi un preludio all’indipendenza, aveva laconicamente risposto: “Se dichiareranno l’indipendenza, noi li attaccheremo militarmente”.

La nuova legge sulla sicurezza di Hong Kong e le minacce militari allo Stato indipendente de facto Taiwan non sono che due degli aspetti, e forse neanche i peggiori, basti guardare cosa succede nello Xinjiang o cosa è accaduto in Tibet, che la mancanza di democrazia ha assunto in Cina.

Di fronte a ciò i Paesi occidentali sono immobili, continuano a considerare il colosso asiatico come un fondamentale partner commerciale e lasciano in secondo piano il fatto che lì i diritti umani siano un optional.

Magari chiedono verità, ma alla fin fine non importa che arrivi una risposta.

È giunto il momento di cambiare.

A cura di Matteo Cirillo

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