Sull’antifascismo

Logica vuole che per parlare di antifascismo prima si definisca il fascismo. Nell’opinione comune prevalgono due posizioni contrastanti: per alcuni è il movimento politico nato e morto con Mussolini, per altri è sinonimo di bieca violenza, odio per l’Altro, discriminazione dei più deboli.

La prima proposta è miope, quando non intenzionalmente riduttiva. La seconda individua un termine ombrello che accoglie e protegge sotto di sé le ignominie del mondo. Per verificare la versatilità del termine è sufficiente sostituirgli altre definizioni altrettanto duttili – ‘patriarcato’ e ‘capitalismo’ sono buone alternative – e vedere se il significato generale rimane invariato. 

Il polimorfismo caratterizza anche il vocabolo ‘comunismo’. Le categorie di fascismo e comunismo si caricano di numerosi significati, lasciando all’interlocutore il gravoso compito di sciogliere l’ambiguità; naturalmente, chi parla si riserva la possibilità di indicare un’altra accezione qualora l’interpretazione offerta lo metta in difficoltà.  

Oggi l’antifascismo sembra diventato prerogativa della sinistra. Non può che essere così, in un Paese dove gli esponenti dei principali partiti di destra non festeggiano il Venticinque Aprile. Eppure, nel ‘29 si creava il movimento “Giustizia e Libertà”; qualche tempo dopo il Partito d’Azione ne raccoglieva l’eredità morale; Gobetti veniva ammazzato di botte undici anni prima che Gramsci marcisse in carcere. Dove ha fallito l’applicazione della Costituzione italiana, esplicitamente antifascista? Forse la Carta è servita a poco se, due anni prima della sua entrata in vigore, Togliatti ha firmato un’amnistia che ha reso impossibile per l’Italia fare i conti col Ventennio. È bene, però, non impelagarsi nella ricerca di capri espiatori: la frettolosa autoassoluzione degli italiani non può dipendere solo da un provvedimento. Sarebbe interessante studiare, in merito al fascismo più o meno latente dell’Italia repubblicana,  il legame fra le condizioni di disagio degli elettori e l’aumento di consenso verso i partiti neofascisti.

Al di là dell’indagine storica, il panorama politico che ci circonda è molto ristretto. Il dibattito è polarizzato, non lascia spazio alle sfumature. Chi grida più forte pensa di avere la verità in tasca. Annotava Pavese: “Una cosa fa rabbia. Gli antif.[ascisti] sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto…” 1 .

In una società sana l’antifascismo deve essere trasversale a ogni classe e orientamento politico. Chi si fregia della maglietta con la scritta “Antifascismo” non è paladino della giustizia, portavoce dei valori più alti. Del resto, non è strenuo difensore della libertà d’espressione chi si lamenta di un fantomatico politically correct.  

Quanti estremizzano lo scenario politico sono manipolatori della realtà: all’occorrenza, tutto si colora di tinte nere o rosse. Il discrimine è la solidità della posizione degli antifascisti. Di conseguenza, appare perlomeno bizzarro il noncurante ricorso di alcuni a omertà, intimidazione, violenza. Fino a che punto si possono legittimare i mezzi? Quante contraddizioni può tollerare la coscienza? Vale la pena, per gli antifascisti scettici, tacere e  immergersi nella fiumana?

I toni esasperati della discussione politica spesso sfociano nel grottesco, ma in ambienti  lontani dalla mia torre d’avorio potrebbero essere presupposti inevitabili.

Se nessuno facesse rumore si sentirebbe solo la voce dei neofascisti, in un clima di generale disinteresse? Se i ragazzini dell’alta borghesia smettessero di infervorarsi per buone cause, queste avrebbero risonanza? Si può essere concilianti di fronte alla violenza degli intolleranti?

Siamo in bilico fra analisi lucida e cieca fede, fra paura di affermare la nostra individualità e desiderio di essere assorbiti in qualcosa più grande di noi.  Il nervo scoperto, qui, è la superficialità. 

A cura di Elisa Tonti


 1 (C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950 con Il taccuino segreto, Rizzoli, Milano 2021, p. 521).

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