Perché votare NO al referendum sul taglio dei parlamentari

In Italia si è progressivamente consolidata nell’immaginario collettivo l’idea che la politica, e più specificamente il Parlamento, sia composta da persone spregevoli, ignare dei problemi del Paese, interessate solo ai propri comodi. Le foto e i video che rimbalzano spesso dal web ai telegiornali, infatti, propongono un’immagine degli eletti vergognosa e imbarazzante, che mal si confà a coloro che dovrebbero decidere le sorti di una nazione.  Tra striscioni da stadio, risse in diretta, brindisi da osteria e gesti discutibili, i membri di Camera e Senato hanno più volte dato prova della loro incredibile serietà, contribuendo così a diffondere l’impressione di una classe dirigente non degna di essere chiamata tale.

Il Governo gialloverde, spinto in particolar modo dal Movimento 5 Stelle, risoluto a cavalcare questo sentire comune, ha proposto nel corso del 2019 un disegno di legge che riducesse drasticamente il numero dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori. L’8 ottobre, con la successiva caduta dell’esecutivo grillo-leghista e la formazione del Conte II, la Camera dei Deputati ha approvato in quarta lettura, a larghissima maggioranza, il taglio degli eletti, sostenuto inoltre dal Partito Democratico che nelle tre letture precedenti si era fermamente opposto. Il 23 gennaio 2020, la richiesta di un referendum costituzionale depositata da 71 senatori ha ottenuto la conferma presso la Corte di Cassazione, che ha permesso così al Governo di fissare il voto al 29 marzo 2020, poi rimandato al 20 e 21 settembre a causa dell’emergenza Coronavirus.

Dopo aver trascurato a lungo il referendum, negli ultimi giorni i media italiani hanno iniziato a parlarne sempre più frequentemente, smascherando un generale malcontento all’interno dei partiti che si erano detti a favore e raccogliendo i dubbi di numerosi esperti (lunedì 183 costituzionalisti hanno firmato un appello con l’invito a votare No). La conclusione più ovvia, a meno di un mese dal voto, è scegliere dunque da che parte stare, analizzando la natura della riforma.

Ricollegandosi alla questione della percezione degli eletti da parte dei cittadini, appare scontato, a questo punto, che il disegno di legge rientri perfettamente nella retorica grillina “anti-casta”, che aveva caratterizzato la nascita del Movimento e ne aveva segnato il successo politico. “Noi non siamo come loro” era infatti stata la costante dell’opposizione guidata da Beppe Grillo prima e Luigi Di Maio poi. In questo senso, il taglio dei parlamentari, più che essere una riforma costruttiva sull’ordine costituzionale, costituisce l’emblema del trionfo pentastellato sui partiti tradizionali. Non è un caso che i 5 Stelle, alla nascita del Governo giallo-rosso, abbiano imposto la nuova legge come condizione non negoziabile. E il PD ha accettato a testa bassa, rinnegando la linea che aveva tenuto sino a quel momento, siglando così un accordo scevro da qualsivoglia idea e progetto politico pur di scongiurare l’ascesa dell’ultra-destra. Deciso, d’altra parte, a non perdere tutta la poca dignità che gli rimaneva, la forza di centro-sinistra ha chiesto in cambio la modifica della legge elettorale e l’inserimento del taglio “in un quadro di garanzie istituzionali e costituzionali”.

Il problema maggiore, tuttavia, risiede proprio nel fatto che il quadro di garanzie e una nuova legge elettorale millantati dal PD siano ora del tutto assenti, rendendo quindi la riduzione una pura e semplice sforbiciata alla rappresentanza. Se la consultazione referendaria dovesse avere esito positivo, infatti, diventeremmo in Europa il fanalino di coda per quanto riguarda il rapporto tra rappresentanti e rappresentati, con un deputato ogni centocinquantamila abitanti, ben lontani dai numeri della penultima posizione, la Spagna, che ne ha uno ogni centotrentamila. In un tempo in cui le Camere risultano spesso svuotate e i parlamentari pervasi da un senso di inutilità, attorno a una crisi emergenziale che richiede scelte importanti, è necessaria – come ha scritto Marco Damilano sull’Espresso – una maggiore presenza della politica e quindi della rappresentanza. Se già con l’attuale compagine si avverte una mancanza di incisività, ci si immagini cosa succederebbe con quattrocento eletti in meno.

L’abitudine da parte dei segretari di partito di compilare le liste dei parlamentari in base a interessi e conoscenze personali verrebbe oltremodo accentuata dall’esiguo numero di seggi disponibili. E si creerebbe peraltro un ampio divario tra circoscrizioni, con le regioni più piccole, in particolare Umbria e Basilicata, che eleggerebbero solo tre senatori, permettendo di fatto solo al primo partito l’accesso a Camera e Senato.

Il Movimento 5 Stelle, a ulteriore sostegno della sua proposta, aveva vantato un risparmio di 500 milioni di euro a legislatura. Dati alla mano, tuttavia, secondo l’Osservatorio dei conti pubblici dell’economista Carlo Cottarelli, il risparmio effettivo ammonterebbe a 285 milioni a legislatura, cioè 57 milioni l’anno, pari allo 0,007 per cento della spesa pubblica e 0,95 centesimi pro-capite all’anno. In breve, molto poco per il bilancio di uno Stato, se si considera che le manovre economiche sono valutate in diversi miliardi di euro.

È sbagliato pensare, infine, che l’efficienza del Parlamento si misuri esclusivamente in base al numero dei suoi componenti. Non è riducendo la rappresentanza che si velocizzano e si semplificano i meccanismi decisionali, ma intervenendo sulle caratteristiche strutturali degli organi istituzionali. Il bicameralismo paritario italiano, che attribuisce gli stessi poteri a Camera e Senato, ne impedisce il funzionamento efficace. Un bicameralismo differenziato, con una Camera dei deputati più potente e un Senato con funzione di controllo sull’azione governativa, consentirebbe invece un esercizio più fluido delle attività parlamentari. In quest’ottica, un taglio più contenuto degli eletti potrebbe anche avere senso, perché 600 o 500 eletti alla Camera e 100 al Senato in un sistema differenziato, per esempio, avrebbe senz’altro ragion d’esistere (qualcuno ci aveva anche provato, nel 2016, a introdurre una misura di questo tipo, ma è noto com’è andata a finire).

La riduzione dei parlamentari si presenta pertanto come una manovra puramente demagogica, che affonda le sue origini in una rivendicazione di partito e che, come si è visto, rischia di indebolire le istituzioni repubblicane e di comprometterne le capacità. In assenza di forze politiche grandi abbastanza da smuovere la popolazione – a meno che il PD non si risvegli dal suo sonno permanente e prenda una decisione in grado di rinverdirne lo status – è fondamentale che l’opinione pubblica si metta in moto per impedire l’attuazione di un taglio della democrazia. Votando NO il 20 e 21 settembre.

A cura di Luca Parisi

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