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Retto e verso

Erano mesi che non si vedeva un cielo così. Morbida nella sua culla di denso latte nero, la luna vegliava sui tetti addormentati di Scampia. Una brezza leggera correva trai vicoli, sfidando le ombre che la superavano.

Il pallone rimbalzava sul muro scrostato. Non appena osava accarezzare le sue crepe, subito tornava ad abbracciare il collo del mio piede il quale, premuroso, lo accompagnava nel viaggio di ritorno. Muro, piede, muro, piede. Perpetuo dialogo muto. Era ormai tardi quando all’ennesimo colpo mancai il bersaglio e il pallone rotolò via. Mi avviai verso il punto in cui era fuggito con l’intento di recuperarlo. Svoltato l’angolo, non ebbi difficoltà a trovarlo nel buio della notte. Una fioca luce filtrava dallo spiraglio di una porta semiaperta. Mi accostai cauto. Dentro, due uomini di schiena. E mio padre dietro al bancone del suo negozio. Uno degli uomini indossava un cappello e teneva entrambe le mani nelle tasche del cappotto. Ad un certo punto la sinistra riemerse stringendo tra le dita una sigaretta. L’uomo-col-cappello lanciò un’occhiata al compagno, che gliela accese. Piccola lucciola nel cuore pulsante della notte. Le spalle ingombranti dei due mi impedivano di vedere la scena, ma le loro parole risuonarono nitide nelle mie ossa.

– Vi prego. Song mis ca’ vi Pago. Nun ce a’ faccio cchiu’.

– Gigginò, o’ sai, funzion così. Nuje nun ci putimme fa’ niente. Song ordini ro’ capo, questi.

– Me state chiedend l’impossibil. Nun pòzzo mantenerm senza o’ negozio.

– Aie na’ famiglia; moglie, figli?

– No, vivo ra solo.

– Ascoltami. O ragiòn e chiudi a’ bottega domani, o nuje veniàm  in casa tua e t’appicchiàm o’ fuoco. Aie capito? Discors chiuso. Mo’ Riinò ed io salutiàm e togliàm o’ disturbo. Ma rimman passiàm e’ nuovo, e voglio bbere chesta puort serrata. Buonasera, Gigginò.

L’uomo-col-cappello fece un cenno a mio padre e si diresse verso la porta, seguito dal compagno. Fui rapido abbastanza da premermi il più possibile alla parete, scansandomi per poco dalla loro traiettoria. L’oscurità doveva essermi complice. I due si fermarono sull’uscio per scambiarsi uno sguardo d’intesa. Trattenni il respiro. L’uomo-col-cappello sbuffò, scuotendo la testa.

– Sarà bbene ca’ nun e’ saltìn stranè ideè in testà.

L’altro affondò il viso nel bavero del cappotto. Si allontanarono, inghiottiti dalla notte. Entrai in negozio. Mio padre vagava senza direzione tra gli scaffali, urtava il bancone, si asciugava la fronte con la manica della camicia. Cercava il senso dei suoi oggetti, le mani terremotate, gli occhi naufraghi in un mare troppo vasto. Quando si accorse di me, accennò un sorriso sghembo.

– Allorà Peppinò, te si divertit oggi?

Corsi tra le sue braccia. Mentre mi stringeva il capo al petto, mi resi conto per la prima volta che provava paura. Paura.

– Torniàm a casà, è tardì. Ci guardiàm a’ finalè e’ coppà staserà, te va?

 

La brezza della sera precedente non si era placata per tutta la notte. Come ogni mattina di quella estate di vetro, accompagnai mio padre al suo negozio. Questa volta indugiò per qualche momento sulla soglia, le dita serrate sul cartellino d’ingresso. Mi sorrise con un fuoco nuovo negli occhi. Voltò il cartellino e lasciò che la scritta “Aperto” danzasse col sospiro del vento.

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