In occasione della festa dell’Europa, abbiamo intervistato Antonio Tajani, vice-presidente del Partito Popolare Europeo e di Forza Italia. Dal gennaio del 2017 al luglio del 2019 è stato presidente del Parlamento europeo.
Presidente Tajani, c’è l’impressione che l’attuale crisi stia facendo vacillare l’Unione Europea. Che il progetto sia giunto al suo termine?
«No, non credo che il progetto sia giunto al suo termine. Nonostante che l’Europa si sia mossa in ritardo, ha dimostrato anche stavolta di saper agire in modo giusto: la BCE con il quantitative easing, la Commissione con il progetto Sure e la BEI, ecc. Resta da vedere come sarà il Recovery Plan: si spera in un 50% di bond e un 50% di investimenti».
Concordiamo però sul fatto che siano necessarie grandi riforme, irrealizzabili nel breve-medio periodo: l’UE oggi è, piuttosto che un ente geopolitico, un coacervo di istituzioni dai poteri limitati, spesso paralizzate.
«L’Europa non è il palazzo di Bruxelles o il Parlamento europeo, ma è il nostro modello di vita, i nostri valori. Siamo figli di una cultura profonda; e oggi più che mai è necessario andare avanti e combattere contro chi vuole trasformare l’Europa in una macchina burocratica».
Ma il nostro continente non è forse troppo denso di antiche memorie per sperare in una nuova dimensione culturale capace di consolidare il senso di appartenenza europeo?
«In parte è vero: è difficile poter rinunciare all’identità italiana, all’identità romana. Per un francese sarà difficile rinunciare a Napoleone. Ognuno pensa di avere dietro di sé una storia incredibile. Se riflettiamo bene, però, capiamo che ogni storia è parte di un’antica storia comune: quella europea. I Romani per primi unirono l’Europa con un’unica lingua, il latino, e con un’unica moneta. Il loro stesso diritto è stato sviluppato dai giuristi tedeschi e da Napoleone. Poi, vi faccio un altro esempio: una volta, all’Università di Perugia, mi hanno mostrato i registri con gli studenti iscritti nel ‘300, e risultavano nomi di studenti tedeschi, francesi e spagnoli. È evidente, dunque, che un minimo comune denominatore ci sia. Noi europei siamo culturalmente diversi dai cinesi, giapponesi o indiani, vista la nostra storia comune, l’importanza che diamo alla centralità della persona. Quello che può apparire e, in certi casi, è un ostacolo deve invece essere una risorsa. Per finire, quell’Europa di cui parlava, in chiave cristiana, papa Giovanni Paolo II è l’esempio di un modello di civiltà da seguire».
Cittadinanza europea: perché non esistono regole comuni per tutti gli Stati membri? È un argomento discusso all’interno delle istituzioni?
«Ahimé, in questo momento non tanto, tuttavia già con i passaporti ci stiamo dirigendo verso questa direzione. Per me l’obiettivo sono gli Stati Uniti d’Europa, ma riconosco che in questo momento l’argomento non è popolare. Oggi dobbiamo superare altri ostacoli e fare in modo che le difficoltà che affronta l’Europa possano trasformarsi in opportunità. Il vero problema a parer mio è che, a parte la Merkel, mancano grandi guide a livello europeo: se ci sono più leader allora si può lavorare insieme e rendere la situazione equilibrata, se invece il leader è solo uno, è ovvio che poi, pur avendo una visione europeista, non fa gli interessi di tutti».
Per concludere, riesce a spiegarci perché di recente l’UE ha affidato a Blackrock (un gruppo con partecipazioni nel settore dei combustibili fossili per quasi 90 miliardi di dollari, NdR) il compito di vigilare sui criteri di sostenibilità ambientale nelle strategie della BCE?
«Si tratta di una scelta fatta dalla Commissione, istituzione da sempre in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici. A volte ci si lascia prendere troppo dall’entusiasmo e si finisce per essere poco pragmatici, caratteristica necessaria se si vuole realmente difendere il Pianeta. La Commissione europea ha un piano, il Green Deal, e sarà presto necessario verificare la sua corretta applicazione».
Intervista a cura di Tommaso Becchi, Federico Spagna e Ludovica Straffi