Ad un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria è giunto il tempo di bilanci. Pochi − forse nessuno − si sarebbero immaginati, ai tempi del paziente zero e di Codogno, che ancora un anno dopo ci saremmo trovati a parlare di lockdown. Per citare il presidente del Consiglio Mario Draghi: «Mai avremmo pensato che un anno dopo ci saremmo trovati a fronteggiare un’emergenza analoga e che il conto ufficiale delle vittime si sarebbe avvicinato alla terribile soglia dei centomila morti». Tutto sarebbe finito il 3 aprile, ammesso che qualcosa fosse iniziato. L’ombra del “virus cinese” che incombeva sulle nostre vite sarebbe svanita, come per magia. I ragazzi sarebbero rientrati a scuola, i ristoranti avrebbero riaperto, le strade si sarebbero ripopolate e tutto sarebbe tornato come prima. E invece no. Non era questione di due settimane. Imparammo a chiamare quel virus per nome e a prendere la situazione sul serio, mettendo da parte le ipocondrie irrazionali ma non per questo sminuendo il pericolo. Proprio in questo periodo, un anno fa, tutta l’Italia diventava “zona protetta”; così ebbe inizio l’incubo. A distanza di oltre dodici mesi viene spontaneo chiedersi se questa tragedia potesse essere evitata. E se non evitata quantomeno arginata.
Sorge il dubbio che le risposte al diffondersi del contagio non siano state sufficientemente tempestive o che la situazione sia stata presa sottogamba. Non si dimenticano facilmente le sconcertanti dichiarazioni rilasciate da numerosi capi di stato. Uno fra tutti il presidente del Brasile Jair Bolsonaro che definì il Covid come una semplice influenza. Non scordiamoci, poi, del primo ministro britannico Boris Johnson che, durante una conferenza stampa, con tono fiero rassicurò i giornalisti: «Continuerò a stringere le mani. L’altra sera sono stato in un ospedale e penso che ci fossero pazienti col Coronavirus e io ho stretto le mani a tutti»; questo, però, solo dopo aver avvisato, nell’ottica del raggiungimento dell’immunità di gregge, i propri concittadini: «Molte famiglie perderanno i propri cari», lasciando intendere che, per quanto la situazione fosse seria, il governo non avrebbe preso misure in linea con il resto dell’Unione. Per non parlare di Donald Trump, che, alla fine, suo malgrado, si è dovuto rassegnare ad indossare la mascherina.
Atteggiamenti molto in contrasto con le parole pronunciate dalla cancelliera tedesca Angela Merkel in un discorso alla nazione trasmesso a reti unificate il 18 marzo dello scorso anno, che affermò: «La situazione è seria, prendetela seriamente». Sulla stessa lunghezza d’onda la premier neozelandese Jacinda Ardern che, favorita dalla natura insulare del paese, impose rigide chiusure prima che la situazione le sfuggisse di mano. Analogo l’approccio della presidente di Taiwan TsaiIng-wen che, ai primi segnali della diffusione di un nuovo coronavirus, memore della drammatica esperienza con la SARS, già nel mese di gennaio istituì una serie di misure restrittive.
Tali strategie si sono rivelate vincenti. Il 27 aprile, mentre in molte parti del mondo si era nel pieno della prima ondata, la premier neozelandese annunciò entusiasta alla nazione: «Lo abbiamo eliminato. La battaglia è vinta». Il successo della Nuova Zelanda, secondo gli esperti, è da attribuirsi alla politica dell’esecutivo, che non ha puntato soltanto all’appiattimento della curva dei contagi ma all’azzeramento della trasmissione, rendendo così possibile un accurato tracciamento. Tuttavia, secondo la CNN, è stato Taiwan − nonostante la presenza di aree densamente popolate − il miglior paese nella gestione della pandemia. Ciò dimostra l’efficacia del sistema di contact-tracing e della quarantena dei positivi in vigore nel paese. Metodo, questo, simile a quello utilizzato in Islanda, una delle ultime regioni Covid free in Europa, il cui modello di tracciamento, basato sullo screening di massa, è diventato oggetto delle attenzioni internazionali.
Non è un caso che questi brillanti risultati siano stati registrati in paesi guidati da donne. Lo dimostra uno studio dell’Università di Liverpool condotto sulla base di un campione di 194 paesi che tiene in considerazione i dati del primo trimestre della pandemia. Da Angela Merkel e la sua quasi “materna” guida della Germania, alla premier neozelandese dal temperamento mite e il polso di ferro Jacinda Ardern, passando per la premier più giovane del mondo Sanna Marin, e la prima ministra islandese Katrín Jakobsdóttir, le leader donne hanno gestito l’emergenza meglio dei loro colleghi uomini, che spesso si sono mossi in ritardo e hanno attuato ambigue politiche per il contenimento del contagio, mettendo al primo posto l’economia, a discapito del resto. Dallo studio, infatti, emerge che in media le donne hanno istituito misure restrittive e chiusure molto prima e in situazioni meno gravi. Secondo i ricercatori tale atteggiamento è da attribuirsi non solo ai diversi stili di leadership ma, anche, e soprattutto, alle tendenze comportamentali tipiche degli uomini e delle donne al comando. Se gli uomini — come più volte dimostrato — tendono a dare maggior rilievo alla tutela dell’economia, le donne mettono al primo posto quella delle vite umane.
Degni di nota e di lode sono stati anche gli stili di comunicazione adottati dalle leader. Dalla carismatica Jacinda Ardern che definì la Nuova Zelanda “la nostra squadra da cinque milioni”, al primo ministro norvegese Erna Solberg che organizzò una conferenza stampa ad hoc per rassicurare i bambini del paese, sorprende l’empatia e l’umanità di leader che hanno dimostrato di essere prima di tutto donne e cittadine.
Prendere in considerazione soltanto i capi di stato, tuttavia, per quanto la leadership possa essere determinante nei momenti di crisi,offrirebbe una panoramica ristretta o potrebbe addirittura far travisare i fatti. Le donne salgono al potere in paesi mediamente più ricchi, sviluppati e − soprattutto − più civili; elementi, questi, che si sono rivelati fondamentali nella lotta al virus.
Resta comunque il fatto che le leader donne hanno dato al mondo prova del loro valore non tirandosi indietro davanti a decisioni scomode e agendo nell’interesse dei propri paesi. Esempi di leadership che vanno ben oltre le questioni di genere, licenziando, una volta per tutte, la troppo radicata convinzione che una politica, ma più in generale una donna in posizione di potere, debba fare di tutto per emulare i colleghi uomini, molti dei quali avrebbero tanto da imparare dai succitati esempi.
A cura di Alessia Prunecchi