L’errore in cui si cade quando antifascismo e democrazia diventano concetti di forma e non di contenuto
Ieri ci siamo trovati a leggere un articolo pubblicato sulla pagina Instagram del MichePost, giornalino scolastico del nostro liceo, dal titolo (abbastanza ambiguo) “Riguardo al razzismo ideologico”.
La riflessione dello scrittore, che parte da un evento reale vissuto dagli studenti del Miche presenti quella mattina, tocca molti dei punti più comuni della retorica del “fascismo degli antifascisti”, baluardo di chi si tira fuori da un’azione politica sul campo e vorrebbe togliere legittimità alle nostre lotte. Facciamo chiarezza. L’espressione recupera un articolo scritto da Pasolini nel 1974 e pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo “Apriamo un dibattito sul caso Pannella”: l’articolo denunciava il comportamento della classe dirigente (DCI, Vaticano, e anche PCI) rispetto allo sciopero della fame di Marco Pannella e di compagni del Partito Radicale perché le loro richieste, giuste e ragionevoli, fossero quantomeno ascoltate. Il testo accusava i comportamenti omissivi e l’antifascismo formale, ma l’espressione si presta da anni ad essere decontestualizzata, fraintesa, strumentalizzata. Un nome noto, “Pasolini”, una citazione usata a conferma dei propri preconcetti, e l’opinione è bell’e confezionata per chi non ha tempo per pensare: Salvini stesso estrapolò una frase da una lettera di Pasolini a Moravia e la utilizzò per criticare le manifestazioni antifasciste del 2018, senza preoccuparsi di leggere il resto del contenuto. Ma è comodo usare grandi nomi per certe critiche superficiali.
Nell’articolo del MichePost, prima di tutto, si dice che “il fascista di sinistra” non accetta alcun tipo di dialogo con chi la pensa in modo diverso da lui, e che è proprio questa chiusura al confronto che la scuola dovrebbe contrastare.
Ora, il nostro Collettivo, come ogni altro Collettivo politico studentesco, nasce proprio per garantire, all’interno della scuola, uno spazio di discussione e analisi politica e sociale: oltre ad averlo costruito nella nostra assemblea, nessuno può non riconoscerci di organizzare dibattiti e incontri quanto nessun altro a scuola.
Ma sempre in quest’ottica siamo stati accostati a una certa “sinistra reazionaria” (probabilmente a causa di una mancata analisi politica da parte dell’autore, appunto), incolpati di passare spesso dalla parte del torto per le nostre soluzioni “semplicistiche e avventate”, che non solo secondo i nostri accusatori non sono efficaci, ma ci catapultano al fianco dei fascisti.
Parliamo della Lega, allora, che insieme a tutti quei partiti populisti si è fatta largo tra i cosiddetti “italiani medi” a forza di slogan vuoti, discriminazione e intolleranza, per mezzo di una politica del leader anziché di contenuti.
L’abbiamo visto: proprio perché sono semplicistici, gli slogan della Lega funzionano. Eppure non vi toccano, non vi fanno incazzare davvero. Quindi, in fin dei conti, non fanno male a nessuno i leghisti se volantinano davanti alla nostra scuola: allora perché tanta rabbia da parte nostra?
Non potete limitarvi a giustificare lo status quo, o soltanto a commentarlo, seduti comodamente in poltrona, non potete limitarvi a salvaguardare i vostri diritti: è necessario garantire quelli di tutti, degli operai, dei precari, degli immigrati, di chi quei Decreti Sicurezza promulgati da Salvini li vive sulla pelle ogni giorno e non ha neanche bisogno di aprire il giornale per capire cosa significano, quali ripercussioni tremende avranno sulla propria vita. E la Lega calpesta tutto ciò.
Salvini urla a gran voce il suo motto “Prima gli Italiani” (rubato pari pari ai neonazisti di Forza Nuova), ma è una buffonata.
Soffia sulle ceneri del patriottismo, allarga la base elettorale, raccatta consensi tra i più ingenui, ma quando parla di italiani non intende gli italiani operai, antifascisti, omosessuali o senzatetto. È la retorica di una classe, che funziona e fa comodo a chi ne fa parte e affascina chi non ha i mezzi per capirne gli inganni, e spesso sono proprio quest’ultimi a farne le spese.
Secondo il Decreto Sicurezza, chi scappa dalla guerra sarà rimpatriato o incarcerato nei CPR in condizioni disumane, chi manifesta in piazza dovrà far fronte a un’infinità di misure repressive del dissenso e a uno smisurato aumento dei poteri delle forze dell’ordine, chi ha occupato una casa perché non aveva un tetto sotto cui dormire sarà sgomberato, chi ha un orientamento sessuale che non sia in linea con la famiglia tradizionale non sarà tollerato e non avrà gli stessi diritti degli altri, chi sciopera subirà un’ancora più forte repressione.
Proprio su quest’ultimo punto è facile trovare la linea di continuità con il fascismo, quello “vero”, quello di Mussolini, che nelle Leggi Fascistissime abolì il diritto di sciopero.
Ad alcuni, quindi, sembrerà anacronistico parlare di fascismo così come di storia di lotte di classe, ma coloro che pagano il prezzo di un certo tipo di ideologia, basata su razzismo, sessismo, intolleranza e profitto, sono sempre gli stessi lavoratori, gli stessi immigrati e le stesse donne. Se poi guardiamo i risultati delle ultime elezioni politiche, le fasce elettorali in cui la Lega (insieme agli amici populisti) è il primo partito sono le meno istruite, quelle dei disoccupati e dei precari, che più degli altri soffriranno dell’assenza di politiche realmente sociali, ma lo faranno con l’idea in testa che la colpa sia degli immigrati e di chi ha ancora più difficoltà di loro, alimentando quella guerra fra poveri che impedisce un cambiamento.
Legittimare la Lega, quindi, significa legittimare il terreno fertile per i movimenti neofascisti (Casa Pound, Forza Nuova, Casaggì, Azione Studentesca), che proprio da organizzazioni come Lega Giovani reclutano i loro adepti.
È stato poi detto che i nostri mezzi non sono corretti, che i fascisti non si combattono a muso duro, togliendo loro la famigerata libertà di espressione e chiudendosi di fronte a posizioni opposte alle nostre.
Per rispondere a questo punto, si torna su un tema fondamentale per noi e che costituisce un divario incolmabile rispetto all’autore dell’articolo e chi condivide le sue opinioni.
Cosa vuol dire per noi fare politica, nelle nostre scuole, in piazza, nella vita di tutti i giorni?
Molti di noi, nel corso degli anni, si sono trovati a contatto (diretto o indiretto) con “chi la pensa in modo diverso da noi” (i fascisti, in questo caso) e hanno più volte constatato che non sono particolarmente aperti al dialogo.
Forse voi eravate già corsi in classe o non ve ne siete accorti, ma anche davanti a scuola nostra abbiamo assistito in prima persona ad aggressioni da parte dei militanti neofascisti nei confronti proprio dei nostri e dei vostri compagni, per non parlare di tutti gli omicidi, scontri e violenze avvenute per gli stessi motivi e per mano delle stesse persone (forse perché non ci siamo capiti bene, dite voi?), anche nella nostra città.
Pensiamo alla strage razzista di Piazza Dalmazia, in cui hanno perso la vita Samb e Diop, o all’omicidio di Idy su Ponte Vespucci, azioni di matrice fascista (dichiarata o meno, non importa) difese dalle tanto amate istituzioni “democratiche” (e non serve arrivare alla Lega, poiché al tempo era Renzi il sindaco di Firenze) , che da anni lasciano ai fascisti agibilità politica nelle nostre strade e nelle loro sedi, e processano invece gli antifascisti, come nel caso del processo agli 86 e quello ai militanti che avevano impedito un presidio di Forza Nuova alle Piagge nel 2014.
Il nostro non è l’antifascismo che va avanti a chiacchiere moraleggianti fatte per soddisfare un capriccio personale, il nostro è l’antifascismo militante, delle analisi collettive e delle azioni di solidarietà pratica che si decidono in assemblea, col confronto e non col voto, dove ogni opinione vale quanto le altre se è fondata su valide argomentazioni, frutto di una faticosa analisi teorica, e non su banalità acchiappa-fessi frutto di un disagio mal indirizzato.
La democrazia che tanto osannate è stata ottenuta col sangue dei partigiani che volevano una società giusta: come avrebbe potuto esserci una discussione con persone che intendevano il confronto come un confronto armato, che dialogavano con la violenza?
E la società per cui quegli eroi sono morti non era quella che ci ritroviamo ora. Non era una democrazia formale, in cui i diritti e le libertà non sono garantiti nella realtà, in cui il fascismo è ancora vivo e la gente muore ancora per colpa di razzismo e intolleranza. Questa non è una vera democrazia, ma un fantoccio, un governo del popolo falso, vuoto: ma basta a tenervi calmi, soddisfatti, convinti che in fondo tutto vada bene.
Se ai neofascisti fosse impedito realmente di organizzarsi, solo allora si potrebbe parlare per tutti di libertà di espressione, che non consiste nel propagandare ideologie di intolleranza e discriminazione, di oppressione e di violenza.
Partigiani non sono solo quelli che hanno sconfitto il fascismo durante il regime di Mussolini: partigiano è il nostro concittadino Lorenzo Orsetti, che un anno fa è morto per difendere la libertà del popolo Curdo e per sconfiggere il fascismo turco di Erdogan. È partigiana Eddi, militante torinese ora condannata alla sorveglianza speciale (per altro sulla base di una norma fascista), perché anche lei era tornata dalla lotta armata contro l’Isis in Kurdistan. I partigiani che ricordate forse solo il 25 aprile esistono ancora oggi, e lottano tutti i giorni per le strade, nelle piazze, in guerra.
Ormai sappiamo che il prezzo da pagare per lottare è essere criminalizzati nelle nostre scuole, ma sappiamo anche quali ideali stiamo difendendo per mantenere vive le ragioni della Resistenza, facendo antifascismo con ogni mezzo necessario.
L’autore dell’articolo scrive: “Il dialogo è provvidenziale, come del resto aveva già fatto notare, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini, in risposta ad un articolo di Italo Calvino in cui veniva detto che con i neofascisti non ci può essere alcun rapporto se non il loro isolamento. E il regista e poeta friulano aveva giustamente evidenziato come non sia l’emarginazione la soluzione al neofascismo.” Provare a citare il Pasolini “anti-antifascista” è diventato ormai un ricorrente cliché di chi non si è mai fermato a comprendere veramente cosa il poeta volesse dire, servendosi nel modo sbagliato di quelle stesse parole che proprio lui avrebbe usato. “Il fascismo oggi non si presenta col fez e la camicia nera, non fa comizi guitteschi dal balcone di Piazza Venezia. Se ne attendiamo il ritorno in quelle forme non capiamo che la società si sta fascistizzando in un altro modo.” e allo stesso tempo non dimenticava la presenza dei veri e propri neofascisti o “neonazisti”, che lui stesso conosceva bene, avendone subito la violenza sulla propria pelle più e più volte. Forse non tutti sanno, e di sicuro l’autore dell’articolo non lo sa, che il regista friulano manteneva alla base del proprio pensiero l’antifascismo, ma non il vostro antifascismo, non quello fatto solo di parole, ma quello collettivo e portato avanti con analisi e fatti. Pasolini, infatti, scrive: ”La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline (Tempo, 21 settembre 1968).” L’artista prima di tutto si scagliava contro la vostra indifferenza e il vostro qualunquismo, contro il privilegio di chi dà i propri diritti per scontati. Quando parlava di “fascismo degli antifascisti”, gli antifascisti a cui faceva riferimento siete voi, non quelli militanti: si riferiva alla classe dirigente, non a chi scende in piazza, alle istituzioni che si dichiarano antifasciste ma poi lasciano sopravvivere le realtà neofasciste, non a chi decide di scontrarcisi. E se siete ancora convinti che Pasolini cercasse solo il dialogo con i neofascisti vi ricordiamo che il 4 ottobre del 1962, a seguito di una scazzottata con il fascista Serafino Di Luia, lui stesso ha dichiarato: “Dovrei vergognarmi di quella mia reazione improvvisa, degna della giungla: sono “partito per primo”, come dicono i tanto disapprovati ragazzacci del suburbio, e gli ho dato “un sacco di botte”. Dovrei vergognarmi, e invece devo constatare che, date le circostanze che mi riducono a questo – a ragionare coi pugni – provo una vera soddisfazione: finalmente il nemico ha mostrato la sua faccia, e gliel’ho riempita di schiaffi, com’era mio sacrosanto diritto.”
Umberto Eco ne “Il Fascismo eterno” parla in questi termini della rinascita, sotto mentite spoglie, del nuovo fascismo, quello che noi fronteggiamo: “L’Ur-fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!” Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice di su ognuna delle sue nuove forme.”
Nessuno si adagi nelle comodità del privilegio, illudendosi che le cose vadano già bene così: perché una società possa minimamente essere considerata giusta, molte sono le lotte da portare avanti. La lotta al fascismo è una di queste.
A cura del Collettivo SUM