Devo assolutamente fare alcune precisazioni.
Non ho voluto togliere alcuna legittimità alla vostra lotta. Ho voluto criticarne certi aspetti, credo che mi sia ancora concesso esprimere dissenso in merito a qualcosa che non condivido: la violenza.
So molto bene che Pasolini è, purtroppo, un intellettuale che si presta molto bene alle strumentalizzazioni, una su tutte quella che citate, la tanto celebre espressione “Il fascismo degli antifascisti”. So benissimo che con ciò Pasolini si riferisce a quel fiero antifascismo del capitalismo e della società dei consumi che ha ‘liberato’ l’Italia dal fascismo canonico, quello in camicia nera e fez; un antifascismo insomma che, visti i mezzi repressivi e autoritari cui siamo abituati, di antifascista ha poco. Ma io, nel mio articolo, non ho citato questa espressione, né tantomeno ho strumentalizzato qualche altra frase del poeta friulano.
Preciso inoltre che Idy Diene è stato ucciso quando a Palazzo Vecchio c’era Dario Nardella, e non Matteo Renzi.
Sono pienamente d’accordo con le vostre posizioni rispetto alla politica di Salvini (sono il primo a considerare i Decreti Sicurezza incostituzionali), e vi sarebbe bastato leggere i miei articoli su Boris Johnson e su Donald Trump per capire come la pensi dei populisti di destra, che, vi anticipo, non amo particolarmente. Così come non amo, e dovrebbe essere scontato, ma evidentemente devo ribadirlo, chi ancora oggi inneggia a governi criminali come quello fascista e quello nazista. Comunque, tutto questo non era il fulcro del mio articolo.
Quel che volevo dire, in realtà, è ben altra cosa. Volevo lanciare una riflessione sui metodi di un certo antifascismo. La discriminazione e la violenza penso che siano controproducenti sia per l’antifascista che per il fascista, incrementando nell’uno l’indifferenza, nell’altro il rancore, l’odio. Dobbiamo invece porre i pilastri per un dialogo pacifico, per far capire che il Duce che alcune persone amano ancora molto ha usato le armi chimiche in Africa e ha firmato le leggi razziali, contribuendo allo sterminio degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali, degli invalidi e degli oppositori politici. Rispondere alla violenza con la violenza è quel che l’uomo ha fatto, ripetendo costantemente il solito errore, da sempre. Per il pacifismo si sono battute eminenti personalità, da Gesù fino a Tolstoj e a Gandhi. Io penso che una persona possa essere cambiata, che si possa porgere quella fatidica guancia anche al cosiddetto nemico. In caso questo fallisca, ci pensa la legge: il fascismo è reato, lo dice la Costituzione. Io credo però che prima del carcere ci possa essere un’opposizione diversa al fascismo, un’opposizione che non sia violenta, ma che sia molto più costruttiva.
Il tema della violenza, inoltre, ritorna quando mi arrivano immagini di post su Instagram col nome del MichePost – dunque di un organo di stampa, fautore di cultura e, di conseguenza, libertà – capovolto, a ricordare la fine di Mussolini in piazzale Loreto. Questo è un fatto gravissimo: minacciare una testata giornalistica, seppur circoscritta come la nostra, è segno di grande ignoranza e intolleranza. A colpire la libertà di stampa sono le dittature, e che ciò venga fatto da alcuni miei compagni mi preoccupa molto. Se poi, con il rimando al cadavere di Mussolini appeso a testa all’ingiù, qualcuno abbia insinuato che il mio articolo fosse fascista, allora si aggiunge a tutto ciò anche la totale incomprensione di quanto io abbia scritto. Spero che anche voi siate d’accordo con me.
Alla fine di tutto posso comunque ritenermi soddisfatto: ho generato dibattito e riflessione. Ho ricevuto un’interessante replica, anche se a tratti, per usare un eufemismo, di cattivo gusto (mi riferisco alle insinuazioni che io abbia strumentalizzato Pasolini e che per di più non lo conosca, al fatto che io me ne stia “in poltrona”, cosa che mi ricorda, peraltro, una ‘critica’ mossami in questi giorni in cui venivo definito ‘professorone’ – sbaglio o era un altro signore della Lega a insultare dicendo ‘professorone?), con alcune cadute come svalutazioni della persona che altro non dimostrano che una sostanziale mancanza di argomenti. Ma ce ne sono stati alcuni, ovviamente, e senz’ombra di dubbio stimolanti. Mi lascia tuttavia perplesso la giustificazione della violenza contro i fascisti, come legittimata dalla massima “Il fine giustifica i mezzi” di machiavelliana memoria (specifico, onde evitare di essere accusato di strumentalizzazioni e ignoranza, che tale espressione non compare in alcuna riga del Machiavelli, ma è bensì l’estrema sintesi di una serie di concetti espressi nel Principe): spesso non indaghiamo su cosa ci sia alle radici dell’odio, limitandoci all’apparenza e, in seguito, a uno sterile scontro frontale. Dietro al neofascismo che si sta facendo largo negli ultimi anni si nasconde l’esasperazione, e trovo profondamente ingiusto e superficiale abdicare all’approfondimento delle cause che portano un uomo ad odiarne un altro. Non è un caso che Casa Pound e Forza Nuova trionfino nelle periferie, le eredi delle borgate pasoliniane in cui, dalla miseria, germinavano i neofascisti del dopoguerra. Con questo non voglio assolutamente legittimare il neofascismo, anzi: voglio legittimare la comprensione e, di conseguenza, una pacifica estirpazione del male. Ma penso di aver già parlato a sufficienza della mia posizione riguardo a ciò, sia nel precedente articolo che, ribadendola, in questa mia replica. Rimango, dunque, delle mie opinioni, ma sentire e capire le motivazioni altrui mi hanno fatto maturare e hanno confermato in me che il dialogo e, soprattutto, l’ascolto sono provvidenziali.
Quello che la piccola Momo sapeva fare come nessun altro era: ascoltare.
Non è niente di straordinario, dirà più di un lettore, chiunque sa ascoltare. Ebbene, è un errore. Ben poche persone sanno veramente ascoltare.
E come sapeva ascoltare Momo era una maniera assolutamente unica.Momo, Michael Hende
A cura di Federico Spagna