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Siamo tutti i discriminati del virus

  Questo articolo fa parte del numero 25 del MichePost, uscito in formato cartaceo l’8 maggio 2021


Ci aveva uniti tutti. Nella disperazione e nella frustrazione, certo. Con gradi diversi, s’intende. C’era chi soffriva la fame, chi a malapena riusciva ad accaparrarsi il cibo, chi veniva picchiato da mariti isterici, chi cadeva in depressione, chi tutte queste cose insieme. Poi c’erano quelli fortunati, che al massimo potevano disperarsi per non poter vedere gli amici, andare a scuola o a lavoro, ma che tutto sommato si mantenevano ben oltre la linea di galleggiamento. Infine c’erano i più sventurati di tutti, che a differenza degli altri, colpiti più o meno indirettamente, la piaga ce l’avevano in corpo, e non ce l’hanno fatta, abbattuti dalla ferocia d’un nemico invisibile. Vivevamo (o non vivevamo) condizioni diverse, contesti diversi, chi peggio, chi meglio, chi nulla. Ma, nonostante questo, eravamo uniti.

Uniti nell’esser frammenti differenti di un unico mosaico. Perché questa tempesta aveva coperto il cielo di tutti noi, indiscriminatamente. Sapevamo di essere sottoposti a una contingenza comune, tutti sullo stesso piano, nella rassicurante certezza che la civitas tutta stesse scontando la nostra identica pena. Sentimento compensato dalla consapevolezza, o meglio, dalla speranza, che ne saremmo usciti tutti insieme, con gioia, lasciandoci persuadere che il dopo sarebbe stato meglio del prima. Un grido di coraggio, insomma, assolutamente legittimo pur nella propria sconsolata retorica, segnale di un eccezionale spirito di sopravvivenza e di fiducia in un avvenire brillante.

Che è arrivato, ma profondamente ridimensionato. La conclusione di quell’ormai insopportabile successione di giorni monotoni ci sembrava un prodigio straordinario, che s’è rivelato, col tempo, un brusco ritorno alle abitudini di prima, nell’abbaglio che quel che era accaduto fosse solo il ricordo di un lontano passato. Ma, come abbiamo avuto l’amarezza di constatare, son bastati tre mesi di libertà assoluta per risprofondare nel baratro del contagio endemico. Era l’estate, dunque, la breve e felice parentesi di una nuova normalità.

Lo sconforto, quindi, ha ripreso possesso delle nostre vite. Ciò che sembrava finito era invece tornato più forte di prima, e noi non volevamo accettarlo. Come avremmo potuto, difatti, tornare in quella misera situazione, immobili, a casa? Il virus, rispetto ai mesi precedenti, agli occhi increduli della gente faceva meno paura, nonostante che continuasse, ineluttabile, a mietere vittime. Abbiamo deciso di comportarci diversamente, di essere meno prudenti, “tanto bisogna imparare a conviverci”, ci dicevamo. Così, anche la politica, che non è nient’altro che espressione delle nostre voci, ha agito di conseguenza, ha alleggerito le misure, le ha diversificate, imponendo a qualcuno restrizioni più dure, a qualcun altro più permissive. Le zone bianche, gialle, arancioni e rosse, il coprifuoco, i ristoranti e i negozi aperti ma i cinema, i teatri, i musei e le scuole no, poi anche i ristoranti chiusi, poi di nuovo aperti.

Da lì, quindi, da quel momento in cui la schizofrenia e il timore di riprecipitare nell’abisso sono diventati il nostro, comprensibilissimo modus operandi, qualcosa s’è rotto, demarcando la linea di confine con ciò che sino a quel punto eravamo stati. Il sorprendente spirito di unità che all’inizio ci aveva in qualche modo salvati, producendo una consolazione reciproca e placando il dolore della prigionia, ha lasciato spazio alla competizione, all’odio, all’indomabile necessità di trovare un colpevole. Ci siamo messi uno contro l’altro, a urlare e a sbraitare, a protestare perché lui ha avuto di più e io niente di niente, a chiedere che quel o quell’altro ministro si dimettesse perché aveva sbagliato tutto, a convincerci che era a causa di quel bastardo che governava se tutto stava andando male, salvo poi ricredersi, senza ammetterlo, dopo aver realizzato che il suo celebrato successore faceva (quasi) le stesse, identiche cose.

L’abbiamo fatto un po’ tutti, indistintamente, chi scrive per primo. Abbiamo accusato, abbiamo cercato con disperazione il nemico, l’origine delle nostre frustrazioni, l’artefice di tutte le discriminazioni, con l’obiettivo di mostrarci oltraggiati in un modo smisurato, di renderci gli ultimi e i dimenticati di un’immaginaria gerarchia che avevamo il bisogno di considerare iniqua. Con ciò, e lo si ricordi, non si sta tentando di giustificare nessuno, né di assolvere dalle proprie colpe i responsabili d’ingiustizie crudeli, che nell’ultimo anno sono state numerose, ma di ricordarci che siamo le vittime dello stesso carnefice.

Così si torna al punto di partenza, a quel momento in cui non ci facevamo la guerra perché naufraghi del medesimo relitto. Ricordate? Lì, all’inizio, avevamo ragione, avevamo capito il conflitto, affidandoci a quel sentimento incredibile che, come dice Rousseau, contraddistingue l’essere umano: la compassione. Perché c’è di certo chi ha sbagliato, chi avrebbe potuto agire più rettamente salvando migliaia di vite, chi sarebbe stato in grado di preservare meglio l’economia di un paese e il benessere minimo dei suoi cittadini, chi ha avuto di più e chi ha avuto di meno. Ma la verità è che siamo tutti i discriminati del virus.

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