“Come convivere con una lavatrice inglese…”

Che gli inglesi si lavassero poco, l’avevo percepito. Era una questione d’intuito e di relazioni, ma tanto da loro piove spesso e quindi si lavano come Madre Natura comanda. Eppure io, da italiano sprovveduto, ho voluto fare a meno del lavaggio con il più tipico dei prodotti nazionali britannici: la pioggia. Ho avuto la sconsiderata idea di fare una comunissima lavatrice.
Ero nel College della Keele University, vicino Manchester.
Un bel mattino mi alzo e vado subito alle lavatrici credendo che si azionino con moneta sonante. Ma sono più schizzinose, per mia sfortuna. Vogliono una tessera apposita, molto sofisticata, simile a una carta di credito. Mi informo, chiedo in giro, e dopo qualche ora di esasperanti ricerche, so cosa devo fare. Mi reco alla reception e chiedo la tessera. Per tutta risposta, mi danno un codice e mi dicono che devo andare a una macchinetta coniatrice di carte per ottenerla. Va bene, cerco e alla fine trovo. È rosa e luminescente, piena di bottoni che suonano e sfrigolano, quasi sia un ordigno pronto a esplodere. Inserisco i codici per disattivare la bomba (pardon, per azionare la macchina), immetto ben dieci sterline e dopo un sibilo, un cigolio, un ticchettio, un rullo, una mezza esplosione…ziiiii, esce fuori una splendida tessera. Ok, ce l’ho fatta. Faccio per andarmene, ma vengo avvertito da una zelante professoressa che devo avere anche una tessera magnetica per aprire la porta che conduce alla lavanderia. Vado alla reception e mi faccio dare questa benedetta tessera magnetica.
Il giorno dopo (sì, se Dio si riposò dopo aver fatto la Terra, anche io dopo quella prova non meritavo riposo?), vado alla stanza delle lavatrici. È sera, fa un freddo boia e spira un vento simile a quello che accompagnava i temibili grifoni di Ezechiele. Armato di tutto il necessario, mi fiondo su un crudele ordigno, cerbero maledetto, per aprire la porta. Peccato che la tessera magnetica che doveva fare da chiave a quanto pare non funziona. Tento e ritento, faccio un paio di telefonate, quindi salgo in camera di una mia amica e le chiedo di darmi la sua. Ridiscendo, finalmente riesco a entrare. Davanti a me, svettanti ed enormi ci sono le lavatrici, presumo, in basso, seminascoste e quasi interrate, piccoli ordigni polverosi che hanno tutta l’aria d’essere delle misere asciugatrici, impotenti di fronte alle sorelle tutta acqua e schiuma. Metto i vestiti nella lavatrice e la aziono. Diamine! Mi sono dimenticato il detersivo. Corro, faccio due rampe di scale, attraverso claustrofobici corridoi (che hanno tutta l’aria d’esser quelli dell’Overlock Hotel di Shining) e chiedo a una mia compagna il sapone. Mi dice di non averlo e mi rimanda a un’altra amica che me lo porge molto gentilmente. Scendo di corsa le scale e, ansimante, raggiungo la lavatrice. Inserisco il sapone e aspetto. La durata del lavaggio, mi dice la macchina, è di 50 minuti.
Esco, passeggio, attendo. Ritorno dentro e mi rendo conto che la lavatrice non ha ancora erogato il sapone e spruzzato l’acqua. Che strano.
Alcuni ragazzotti bussano alla porta della lavanderia (sciocchi, avevano saltato un passaggio importante). Per pietà cristiana, apro loro la porta.
Chiedono come funzionano le lavatrici e io, dall’alto del mio grande sapere in Teologia delle Bolle, do loro precise indicazioni. Gli alunni eseguono fedelmente. Poi si ritirano soddisfatti. Attendo ancora, in solitudine. Passano i minuti. La lavatrice segnala che mancano ancora 10 minuti alla fine del lavaggio. Che strano però, l’acqua non era ancora uscita fuori dal rullo metallico…
È qui che con orrore indicibile mi rendo conto che quella… non era una lavatrice. Mi guardo intorno, spaesato, cercando di captare segnali in inglese apposti con diciture a prova di lente d’ingrandimento. Quella non è una lavatrice, ma un’asciugatrice!
Disattivo i comandi, tolgo i vestiti, li sistemo in fretta nella lavatrice (quella vera), pago altri soldi con la mia carta, inserisco altro detersivo e aziono. Altri 50 minuti. Poveri quei ragazzi, la loro finta lavatrice, ridendosela sotto i baffi, continua a girare, asciutta come il Sahara.
Finita la lavatrice, traspongo i vestiti nell’asciugatrice e pago altri soldi, digito i segnali e aziono. Attendo altri 50 minuti.
Intanto è diventata notte e spira un vento freddo mentre le nuvole si addensano in cielo. Torno alla lavanderia, e noto che il tempo e finito ma i vestiti sono ancora umidicci e appiccicosi. Pago altri soldi e aziono un secondo giro di asciugatura. Altri 50 minuti.
Intanto è notte fonda. Torno in camera, mi faccio una doccia e quando rientro nella stanza maledetta ritiro i miei vestiti, ormai asciutti, e li trasporto come un’equilibrista fuori dalla stanza. Fra le mie braccia grava un mucchio multiforme tremendo: maniche di camicie pendenti, mutande che seguono il ritmo del vento, felpe che si accartocciano per il freddo. Sospiro, attraversando il parco del giardino. Finalmente ce l’ho fatta.
Scoppia un temporale.

A cura di Matteo Abriani

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