Non sono una grande fan dei cartoni, anzi, nel cinema quasi disprezzo tutto ciò che non è estremamente e radicalmente vero, non amo ciò che è creato per suscitare riso e nemmeno le ambientazioni holliwoodiane, e quando mi hanno consigliato di iniziare BoJack Horseman ero fermamente convinta che non sarei andata oltre il terzo episodio. E invece adesso sono qui, che mi sento più figlia di un cavallo e di una gattina rosa che di entrambi i miei genitori.
Divulgata e resa celebre tramite le vignette delle sue citazioni, BoJack Horseman è la serie animata pluripremiata creata da Raphael Bob Waksberg per Netflix, 77 episodi in 6 stagioni diffuse tra il 2014 e il 2020. Qualcuno sfrontatamente la etichetta come commedia, non lo è, tutt’altro. È anzi un viaggio nelle difficoltà di approccio alla vita dei protagonisti, una satira del mondo dell’industria cinematografica e una denuncia dei più svariati temi sociali.
La trama si snoda attorno alla quotidianità drammatica di una decina di personaggi, alcuni umani, altri animali antropomorfi. Il protagonista è BoJack, un attore divenuto famoso con una sitcom degli anni novanta, che a causa del suo carattere spinoso e delle sue cattive abitudini non è riuscito a farsi strada nel mondo del cinema dopo la chiusura del telefilm del quale era protagonista. Attraverso le trasparenze emotive di questi entriamo in uno stato di introspezione: gli stati d’animo, le frustrazioni, i rimorsi, le commozioni e i turbamenti sono crudi e reali. È proprio questa la grandezza della serie che, per quanto possa essere distante, nell’ambientazione, ci è così vicina nell’interiorità. È paradossale: nonostante sia un cartone di animali, per altro pseudo-comico e a tratti grottesco, è la serie in cui più mi sono rivista ed immedesimata.
Dai costanti sospiri di BoJack ai pianti di Princess Carolyn, tutto porta ad una lenta ma crescente empatia, si assiste ad una maturazione dei personaggi, sia psicologica sia anagrafica, e si arriva all’ultima stagione con la percezione che questi siano una parte di te.
La serie si chiude con un lungo e sfiancante silenzio, con un finale che non è un finale. E spiazzato e disorientato mentre fai mente locale, l’unica cosa che riesci a concepire è ‘grazie Raphael’.
A cura di Emma Ester Barugolo