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Dolcezza e sincerità nel nuovo capolavoro di Paolo Sorrentino

 Questo articolo fa parte del numero 26 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 10 dicembre 2021


Ci sono alcuni registi la cui opera è legata in modo indissolubile alla propria vita, che tende a entrare con prepotenza in ciascuna delle loro creazioni; il cinema si trasforma così in uno strumento di psicoanalisi e di studio delle proprie insicurezze. È il caso di François Truffaut, di Woody Allen, di Federico Fellini o di Charlie Kaufman, tra gli altri. Paolo Sorrentino, per tutta la prima parte della sua filmografia, è stato uno di questi registi capaci di modellare i suoi personaggi a propria immagine e somiglianza, maestro nel raccontare storie personali e allo stesso tempo universali, espressioni dirette dei suoi moti interiori. Durante un percorso in ascesa iniziato con L’uomo in più, forse uno degli esordi più sorprendenti di tutta la storia del cinema, e conclusosi con Il divo, il ritratto graffiante di Giulio Andreotti, Sorrentino è stato in grado di proporre un cinema dallo stile fresco e originale.

Dopo la parentesi a mio giudizio infelice iniziata con il grande successo internazionale de La grande bellezza e proseguita fino a Loro, in cui il regista è scivolato nel baratro del virtuosismo, della coppia Scorsese-Fellini scopiazzati male e dell’autocompiacimento sfrenato condito con elementi ridondanti e didascalici, Sorrentino è finalmente ritornato sulla via che gli riesce meglio: quella più naturale, personale e malinconica.

È stata la mano di Dio, al cinema dal 24 novembre e poi su Netflix dal 15 dicembre (vi prego, andate a vederlo in sala!), segna infatti uno spartiacque decisivo nella sua filmografia. Superato lo sperimentalismo dei primi anni e abbandonata l’artificiosità degli ultimi lavori, il film è un’autobiografia dai lineamenti straordinariamente semplici e sinceri. Nella seconda metà degli anni ’80 Fabietto (Filippo Scotti), alter ego di Sorrentino, è un ragazzo di 17 anni della classe media napoletana. Timido e riservato, con il sogno di fare il regista di film, è un osservatore appassionato di una Napoli magica e suggestiva, in cui tutto sembra possibile. La famiglia numerosa che lo circonda e a cui è molto legato – un padre carismatico (Toni Servillo), una madre affabile (Teresa Saponangelo), una zia psicolabile dall’incredibile fascino erotico, uno zio disilluso dalla vita – e la fondamentale figura di Diego Armando Maradona, sua fonte d’ispirazione permanente, costituiscono il filo su cui si regge la sua vita. Un grave incidente mortale che coinvolgerà i suoi genitori, tuttavia, getterà un’ombra opprimente sulla sua esistenza.

Un po’ come successo ad Alfonso Cuarón e al suo Roma, affresco in bianco e nero della sua infanzia, Sorrentino è ora giunto a un’età che gli permette di guardare lucidamente al suo passato e ai demoni dell’adolescenza, dalla tragica e prematura perdita dei genitori alle prime esperienze sessuali (e che esperienze!), fino alle difficoltà di trovare un’ancora di salvezza nel disordine della crescita. La prima parte del film è una commedia incantevole e deliziosa, come quasi non era mai successo nell’opera del regista napoletano. Le stranezze e gli eccessi dei parenti di Fabietto, tutti in qualche modo accomunati da un’eccentricità divertentissima, si alternano alla gioia provocata dall’arrivo di Maradona nel Napoli, allo studio presso il liceo classico, ai desideri erotici inappagati e all’acquisto di una nuova casa di montagna a Roccaraso. Il risultato è il dipinto di una piccola borghesia non certo a carattere sociologico, ma filtrata dagli occhi spensierati del protagonista, costantemente accompagnato da un walkman di cui non sentiamo mai la musica. La dolcezza del racconto ci solleva così dalla poltrona e ci immerge in una realtà di cui è impossibile non innamorarsi, tanta è l’ironia e la passione che cospargono questo spaccato.

La seconda parte cambia nettamente registro: i tratti comici si fanno più rari, lasciando spazio a un dramma esistenziale che procede a rilento e quasi per episodi, in un flusso indistinto di eventi che vedono Fabietto completamente disorientato. Alcuni ne hanno criticato la disorganicità, mettendo in evidenza l’assenza di un obiettivo e di una dimensione in cui risolvere consapevolmente la storia. Sono convinto, tuttavia, che queste posizioni manchino di una visione d’insieme: questa seconda parte è sublime proprio perché tende all’anti-narrazione, alla sospensione, a un’atmosfera in cui tutto appare confuso e senza punti di riferimento. La morte dei genitori di un ragazzo già insicuro e solitario, infatti, non possono che condurre a un vagare senza meta, e alla scoperta di quei fenomeni che contribuiranno a comporre la personalità del regista.

Stupisce la sobrietà con cui Sorrentino si confessa con noi: è finito il tempo delle inquadrature vorticose, dei movimenti di macchina stravaganti, delle scene pesanti accompagnate da una musica incombente. Qui si prediligono la camera fissa, i dialoghi ridotti al necessario e la musica che si presenta di rado, solo in determinati momenti di grande carica emotiva. Certo, rimangono saldi alcuni stilemi, come le donnone tipicamente felliniane o certe sequenze dal sapore onirico, ma essi sono pochi e sempre al posto giusto, e trovano una loro logica e un loro perché senza sovraccaricare l’estetica del racconto.

Non è facile abbandonare lo stile con cui tutto il mondo ti riconosce e che ti ha fatto vincere un Oscar. Sorrentino è stato in grado di farlo, di affrancarsi dal ruolo che il pubblico gli aveva affidato per riallinearsi a quella che realmente è la sua poetica. E l’esito è più che mai chiaro: il capolavoro di un maestro del cinema.

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