Ho intervistato il Biondi, sogno di molti. E’ stato bello, interessante e divertente. Sul Miche Pod trovate gli audio di tutte le domande più qualche Excursus bello potente. Arrivate fino alla fine dell’intervista perché credo che il prof. ci abbia lanciato una sfida. Buona lettura.
A cura di Marco Masullo
Caffè del Verone, 30/12/2024
Ok, stiamo registrando. Innanzitutto grazie mille prof. di essere venuto qui oggi, sono davvero contento, e penso che lo siano anche i suoi studenti. Quindi se vuole fargli un saluto, prego.
Sì, buongiorno ragazzi. Siamo qui in una bellissima terrazza, con Battiato di sottofondo, peraltro, che è appena finito. E’ un bel 30 dicembre, è una bellissima giornata, spero che voi stiate bene, siate felici, tranquilli, rilassati, che stiate studiando, sì, ma soprattutto che stiate vivendo. Sapete chi sono, immagino: almeno un buon 50% di voi o mi ha o mi ha avuto come insegnante. Quindi rieccomi qua. Buongiorno.
1.
Buongiorno, direi di partire subito con l’intervista. Vorrei iniziare dalla scienza, perché lei è un professore di scienze. Ma soprattutto perché lei, quando aveva circa la mia età, ha scelto di iscriversi a un corso di laurea – Chimica e Tecnologie Farmaceutiche – in ambito scientifico. Perché lo ha fatto? E in che modo la formazione scientifica ha influito sulla sua Weltanschauung, visione del mondo, intesa come il modo in cui lei guarda alla realtà?
Ok, dividiamo questa domanda in due parti. La prima è perché l’ho fatto, cioè cos’è che mi ha portato alla tua età, anzi un anno più della tua età, a scegliere questo corso di laurea. E poi – seconda parte – come ha influito sulla mia visione della realtà. Come immagino molti studenti sappiano, non è facile la scelta di cosa fare dopo il diploma. Ho avuto un percorso scolastico abbastanza complesso, direi. Insomma, non ero proprio il più bravo degli studenti, mettiamola in questo modo. E non sapevo bene cosa fare. Nel corso dei miei “studi” – tra virgolette perché studiavo poco – ci sono stati degli elementi (e io in realtà penso molto all’insegnante di scienze che ho avuto) che mi hanno fatto capire che la via scientifica poteva essere la mia. Ma è stato abbastanza un tentativo, perché quando mi sono iscritto all’università non ero convintissimo di esserne in grado. E un’altra cosa che mi ha influenzato magari è stata la possibilità di cambiare. Mi dicevo: “Per ora mi iscrivo, ci provo e poi male male cambio”. Perché, invece, partire con un corso diverso e poi virare verso uno scientifico sarebbe stato un po’ più difficile. Quindi, indicativamente, sono andato verso il ramo scientifico per questo.
Perché Chimica e Tecnologia Farmaceutiche, che è anche molto sanitario, e non Chimica? Beh, tanti motivi. Devo dire che uno dei motivi – che ai vostri occhi mi renderà una persona banale – è che, confrontando Chimica e Tecnologie Farmaceutiche con Chimica, a CTF c’era soltanto un esame di matematica e un esame di fisica. E a me, col fatto che alle superiori avevo studiato in modo molto relativo, non sapendo se mi sarebbero riuscite materie come matematica e fisica, già sembrava un salto forte andare in un corso di laurea scientifico, che non ero assolutamente convinto mi sarebbe potuto riuscire. Diciamo che l’ho presa con un approccio un po’ “soft”. Se ci ripenso adesso, mi sembra una cosa veramente ingenua, anche perché la matematica e la fisica sono due materie bellissime che si studiano volentieri. E magari un giorno molti di voi saranno d’accordo con me e spero che molti siano d’accordo già ora, però ammetto che questa cosa mi ha guidato molto. Poi è anche vero che CTF mi ha dato una formazione biologica molto marcata, che temevo che un corso come Chimica non avrebbe saputo darmi. Devo anche dire una cosa: che io vedevo corsi come Fisica o Ingegneria troppo difficili per me. Forse adesso mi sembra una cosa stupida, però all’epoca avevo vent’anni e già mi sembrava peccare di “hybris” iscrivermi a un corso di laurea scientifico. Orientativamente, ho guardato i corsi scientifici e ho detto: “Bene, CTF mi pare quello più adeguato”. Quindi niente vocazioni o cose simili, da questo punto di vista.
Secondo punto: in che modo la formazione scientifica ha influenzato la mia visione del mondo? Tantissimo, chiaramente. Se mi trovo davanti a un problema, non posso non pensare a come risolverlo utilizzando un approccio da metodo scientifico. Oppure, se mi trovo davanti a una qualunque notizia letta sui giornali, mi viene innanzitutto da non fidarmi subito. E questo non per motivi complottistici, ma semplicemente perché mi chiedo: “Come è stato acquisito quel dato? Che cosa ci dice effettivamente quel dato?”. E questo perché l’ho fatto sempre da quando mi sono iscritto all’università – forse più dal secondo o terzo anno in poi. E’ una cosa che ti viene naturale, anche perché, studiando in un ambito medico-sanitario, quando leggi – che ne so – i dati dell’efficienza di un farmaco, sono sempre dati molto limitati, cioè molto specifici di una singola cosa. Indicano l’efficienza di un farmaco misurata in un certo modo su una certa cellula eccetera eccetera. Da qui ti rendi conto di quanto siano parziali tutte le informazioni che abbiamo e di come tu possa applicare benissimo questa considerazione a tutte le informazioni che ci arrivano.
2.
Mentre, parlando più nello specifico di ricerca scientifica, quali sono gli obiettivi che essa si pone? Nel senso: io credo che sia innegabile che lo scopo primario risulti essere quello pratico, ovvero il miglioramento delle condizioni di vita della specie, ma, in un secondo momento, si può parlare anche di un aspetto filosofico, astratto della ricerca, diciamo più speculativo? E invece che ruolo ricopre l’interesse economico in questo settore?
Ok, va bene, domanda interessante, sicuramente. Prima cosa: gli obiettivi della ricerca scientifica, distinguere tra quello pratico e quello speculativo. Ragioniamoci. Secondo me innanzitutto si può suddividere la ricerca in ricerca di base e ricerca applicata, ma non è una suddivisione della quale penso che adesso sia il caso di parlare. Peraltro non è neanche una divisione proprio netta netta netta. Secondo me molte persone pensano che lo scopo primario della ricerca sia quello di migliorare le nostre condizioni di vita – che è una cosa molto comoda, perché, insomma, penso che nessuno avrà qualcosa da contestare quando si destinano dei fondi pubblici alla ricerca sulla cura di qualche malattia. Ma forse io, da persona che ha studiato in questo campo, la vivo in modo un po’ diverso. Secondo me la ricerca scientifica ha come scopo principale quello di farci capire meglio delle cose – utilizzando il termine più generico possibile – sull’universo, sulla vita, su noi stessi. Ci dà tantissime conoscenze su chi siamo e su come è fatto il mondo, etc., che possono anche avere un riverbero pratico, anzi, che quasi sempre hanno un riverbero pratico. Infatti, una delle cose belle della scienza è che ha tantissime applicazioni pratiche, ma secondo me non è il motivo per cui si dovrebbe studiare. È una cosa molto comoda, che fa sì che si possa studiare e che tutti siano d’accordo col fatto che sia utile, però secondo me non è la regione prima. Il motivo principale per cui ci piace la scienza è che ci dà tantissime risposte su quello che siamo noi e su quello che è l’universo. Poi ha tantissime applicazioni, ma secondo me – almeno finchè si ha la vostra età – è più importante pensare a quello che la scienza ci dice su noi stessi e sull’universo, piuttosto che alle possibili applicazioni che ne derivano, che comunque ci sono e sono molto utili.
Detto ciò, è indubbio che l’interesse economico sia gigantesco, ma giustamente. Se pensiamo a tutte le applicazioni tecnologiche ottenute grazie alla ricerca e alla loro utilità, è chiaro che la grande azienda XYZ, che spende milioni di dollari nella ricerca, non è che lo fa perché vuole aumentare le conoscenze dell’Umanità. Magari questo può essere un buon punto per vendersi, per fare marketing, però è chiaro che c’è un interesse economico dietro. Pensate all’industria farmaceutica – dato che parlo sempre di quello, per ovvi motivi di formazione. Le aziende non sono ONLUS: spendono milioni di dollari in ricerca e anche in marketing perché devono avere un ritorno economico e giustamente, direi. Sennò non avrebbero la possibilità di spendere tutta questa grande quantità di risorse. Io non è che voglio fare un discorso moralista da questo punto di vista, però non si può non riconoscere che l’interesse economico è una delle cose principali nella ricerca scientifica, almeno per come è vista ora. Se questo sia un bene o male, non rispondo.
(A questo punto su Spotify trovate un bel Excursus sulle case farmaceutiche)
3.
Ora, avvicinandoci al tema della scuola, vorrei farle questa domanda. Diciamo che lei probabilmente – considerando le buone opportunità lavorative che offriva e tuttora offre il suo corso di laurea – sarebbe potuto andare via dall’Italia per fare un altro tipo di lavoro, credo meglio retribuito. Perché non lo ha fatto? Perché ha deciso di fare il professore in Italia? E quali sono le sue considerazioni a posteriori?
Anche questa, domanda interessante: perché non me ne sono andato a fare un lavoro meglio retribuito? Tra l’altro ho anche avuto diverse opportunità per farlo e penso di essere veramente uno dei pochi dei miei compagni di corso che ha deciso di fare l’insegnante. Perché è una questione complessa. Quando sono uscito dal liceo, non avrei mai pensato di tornare a scuola, anzi mi pareva un po’ come tornare all’inferno. Poi però durante l’università ho pensato alla persona che ero e a quanto la persona che ero fosse il frutto della mia formazione precedente e a quanto i miei vari insegnanti avessero influito sul me stesso Francesco Biondi di 23, 24, 25 anni – gli anni che avevo all’università -. Sinceramente ho pensato che la scuola per me era, non dico un inferno, – però forse i primi due anni sì – ma comunque un luogo che sentivo veramente come una forzatura spiacevole. Ecco, sicuramente spiacevole. E che erano stati veramente pochi gli insegnanti che mi avevano compreso. Perdonate se utilizzo questo termine, che non amo usare quando si parla di adolescenti; mettiamola così: che mi avevano dato l’impressione di avermi compreso. Perché l’importante alla fine era la percezione che avevo io come studente, non tanto quello che pensava il docente o se avesse davvero capito chi ero come persona, per quanto fosse possibile capirmi. Vabbè, fatto sta che mi sono accorto che forse ce n’era stata una di prof che aveva cercato di venirmi incontro ed era stata proprio quella di Scienze, e che magari questo era uno dei motivi per cui avevo deciso di optare per un corso di laurea scientifico. Non lo so, però pensai che – peraltro lei mi ha riempito di tre i primi anni: penso di aver visto la prima sufficienza in Scienze in terza, ma non è questo l’importante – in realtà io forse avrei potuto fare una cosa simile e che l’insegnante fosse un lavoro adatto a me. E poi pensai anche un’altra cosa: che è meglio fare un lavoro bello che un lavoro ben retribuito – e questo lo penso tuttora -. Io mi trovo bene a fare questo lavoro e non so se mi troverei bene a fare i lavori che fanno alcuni dei miei ex compagni d’università.
Quindi, per rispondere alla domanda: quali sono le mie considerazioni a posteriori? Di sicuro mentirei se dicessi che non penso mai a quello che sarei potuto essere se avessi preso un’altra strada che mi hanno offerto. Sì, ogni tanto ci penso, ogni tanto penso che magari un dottorato di ricerca l’avrei potuto fare e che magari dopo avrei comunque continuato a fare l’insegnante. E’ vero e mi trovo sempre a fare delle valutazioni in modo molto oggettivo; cerco di essere molto onesto con me stesso, quindi mi chiedo spesso: “Ho fatto bene a fare quello che ho fatto? E se penso di aver fatto bene, lo penso perché ho bisogno di stare in pace con me stesso o perché per quanto la mia coscienza possa arrivare a comprenderlo è davvero così?”. Diciamo che al momento non mi pento delle scelte che ho fatto. Se anzi posso dire una cosa ai miei alunni, l’unica cosa di cui effettivamente mi pento è di non aver fatto un periodo all’estero durante l’università, questo sì. Però oramai me ne sono fatto una ragione. Per il resto, in questo momento della mia vita sono estremamente felice della strada che ho preso e non me ne frega niente se avrei potuto guadagnare il doppio o il triplo facendo altri lavori: questo lo sento proprio adatto a me.
4.
Spostandoci sul Miche, so che lei, prima di approdare al nostro liceo, ha insegnato anche in altre scuole, alcune delle quali più “di frontiera”. Noi sappiamo bene che la nostra è una situazione fortunata, una delle più fortunate, e che esistono altri ambienti in cui la qualità dell’istruzione è peggiore e le difficoltà sono molte di più. Ripensando alla sua esperienza personale, ha notato delle differenze tra le due realtà? Inoltre: ha un bel ricordo di questi suoi primi anni di insegnamento?
Ok, allora, parliamone: “di frontiera”. Su questo punto bisognerebbe fare un discorso più ampio su quanto il nostro sistema di istruzione sia effettivamente classista. Non voglio affrontare l’argomento in questa sede, anche se è un discorso interessante da fare. Però non dovete immaginarvi Io speriamo che me la cavo con il bambino che mi minaccia o cose simili, anche se, anche se… Comunque è vero che qui al Miche siamo fortunati, questo perché gli studenti che si iscrivono al Miche sono già stati abbastanza selezionati alle scuole medie – se posso permettermi ancora di chiamarle così – mentre in altre scuole questo non avviene. Tuttavia, io ho essenzialmente dei bei ricordi. La prima scuola pubblica in cui sono stato era un istituto tecnico in cui mi sono trovato benissimo, sia come alunni che come colleghi: si stava proprio bene. Sai, quando ho iniziato a fare l’insegnante pensavo a tante cose, ero molto idealista, etc. etc. Dicevo: “Sì, potrebbe essere il lavoro che fa per me”. Però finché non sei sul campo non lo sai mai se è effettivamente il lavoro che fa per te. Ecco, io in quella scuola ho capito che nella vita avrei fatto l’insegnante, quindi sicuramente troppo male non stavo. Invece, in altre scuole si percepiva un certo disagio che poi caratterizzava anche il territorio. Sì, era tutto molto diverso rispetto al Miche: passavo tanto tempo anche a parlare con gli studenti delle loro situazioni, a volte delle loro situazioni familiari. Non sai mai, tra l’altro, fino a quando ti puoi spingere ed è brutto vedere tanti studenti che appena compiono 16 anni lasciano la scuola, perché tanto loro sono a scuola perché c’è l’obbligo. Quindi sì: è sicuramente molto diverso, però io ho un bel ricordo di quello che facevo, soprattutto del rapporto che avevo con gli studenti, perché avevano tantissima voglia di aprirsi e di parlare. Di sicuro ci saranno stati quelli che hanno deciso di chiacchierare un po’ con me delle loro vite, delle loro esperienze, della loro esistenza perché della chimica non gliene poteva fregare di meno, ma io un po’ questa cosa la capisco, perché erano delle situazioni veramente pesanti.
Con ciò non voglio dire che al Miche ci sia il mondo perfetto e altrove ci sia l’inferno. So benissimo che ci sono situazioni e situazioni anche qui, per carità. Tuttavia al Miche si respira in generale un forte apprezzamento nei confronti della scuola. Magari non del Michelangiolo in sé per sé, ma del sistema scolastico in generale: c’è una certa fiducia nell’istruzione, che altrove – vi assicuro – non c’è. Anzi, spesso dalle stesse famiglie si percepisce una sorta di avversione per il far istruire i propri figli invece di fargli fare altro. Nonostante ciò, il mio rapporto con i ragazzi era veramente bello, quindi ho molti più ricordi belli che ricordi brutti legati ai miei primi anni e soprattutto i ricordi brutti che ho sono legati alla tristezza e al dispiacere provati quando l’alunno lasciava la scuola. Perché, se succede da noi, sai che lascia il Michelangiolo perché andrà in qualche altra scuola, mentre altrove no: sai che lascia la scuola e non prenderà mai il diploma oppure lo prenderà dopo 20-30 anni se avrà intrapreso un percorso che lo porterà a fare le scuole serali. E, considerando tutte queste cose, mi viene da pensare – non voglio essere eccessivo – che è bello stare al Miche ma che è anche più facile rispetto ad altri posti. La mia esperienza passata mi ha fatto apprezzare molto l’ambiente in cui mi trovo adesso.
5.
Parlando sempre dei ricordi che ha da professore, mi racconta prima un episodio brutto e poi uno bello della sua esperienza a scuola?
Allora, i ricordi brutti da insegnante per me sono sempre legati a un’unica cosa: all’abbandono scolastico, ma non all’abbandono di una specifica scuola, proprio a quello del sistema scolastico. Anzi, per la precisione, quella che voglio raccontarti è una delle pochissime volte in cui mi sono arrabbiato con la classe. Io non mi arrabbio quasi mai e se mi vedete arrabbiato molto spesso è perché sto cercando di esercitarmi, perché so che dovrei arrabbiarmi più spesso, ma non è questo il punto. Quello che mi viene in mente è successo in una scuola sicuramente più problematica del Miche, in cui era la norma che in terza prima o poi qualche studente sparisse per lasciare la scuola. Questa è una cosa che agli insegnanti fa male, o almeno a me faceva male. Mi rendo conto che noi docenti possiamo influire poco su questo aspetto: una volta che completi l’obbligo scolastico – sì, c’è l’obbligo di formazione fino a 18 anni – non è che possiamo fare più di tanto. Quindi mi rendo anche conto che non è che puoi sempre starci male tutte le volte che perdi uno studente, perché alla fine tu insegnante ci soffri e basta senza risolvere niente. Però, il ricordo brutto che racconto non è legato a questo: in quel frangente mi arrabbiai con la classe perché il giorno che mi diedero la notizia che un determinato studente – che era uno di quelli che etichetteresti come svogliato, casinista, etc. – aveva lasciato la scuola, tutti i suoi compagni di classe erano a riderci su e a scherzare, e anche con toni del tipo: “Oh bro, le dispiace proprio che lui se ne sia andato, eh”. E il fatto che fossero convinti che anch’ io partecipassi alla loro gioia per la perdita del compagno mi fece veramente arrabbiare, ma arrabbiare a tal punto che mi veniva quasi da lacrimare e tremavo. Gli feci una parte di quelle che penso che tuttora si ricordino, perché penso sia stata una delle due uniche volte in cui uno studente mi ha visto veramente arrabbiato. Gli dissi: “Ma che cosa c’è da ridere e scherzare se uno studente lascia la scuola? Ma ci pensate alla sua vita? Ci pensate al suo e anche al vostro futuro?”. Così per 10 minuti. Loro paralizzati. Anche il collega di sostegno, che sentì tutta la mia sfuriata, era paralizzatissimo. Penso che capirono che su questo tema non potevano permettersi di scherzare con me, né tantomeno di aspettarsi un atteggiamento di complicità da parte mia. Però devo dire la verità: a posteriori capisco un po’ anche il loro punto di vista, capisco il punto di vista di quegli alunni che vedevano quel ragazzo come un problema, un ostacolo al loro studio. Quindi forse un po’ me ne pento: avrei potuto fare un discorso più pacato e approfittarne per fare una riflessione su cosa effettivamente significhi abbandonare la scuola e sull’importanza della scuola, perché secondo me in quel caso ce n’era un forte bisogno. Sì, un po’ me ne pento della mia reazione, anche se penso sia stata molto umana, però ribadisco: quello che mi ha dato fastidio è stata la sensazione di complicità che gli alunni credevano di avere con me, il fatto che loro credessero effettivamente che io fossi felice che lui avesse lasciato la scuola. E’ questo che mi fece arrabbiare: il non essere compreso dai miei alunni in una situazione del genere. E allora percepii davvero un abisso enorme tra il mio punto di vista e quello dei miei studenti. Proprio per questo, ripensandoci, forse la cosa giusta da fare in quel momento sarebbe stato provare a ridurre quell’abisso, però è andata così…
Parlando invece di un ricordo bello, anche qui è difficile perché di ricordi belli ne ho tantissimi – non voglio essere retorico e dire che i ricordi belli la scuola me li offre ogni giorno, ma un po’ è così. Fatto sta che secondo me il ricordo che ha più senso condividere con voi è quello di un esame di stato di una scuola serale, in cui c’erano alunni molto più grandi di me. E in particolare sto pensando al pianto di una donna di cinquant’anni, forse anche di più, che finalmente riuscì a prendere il diploma, e a tutta la sua gioia. Lei era un’alunna brava, per carità; tuttavia, come preparazione in sé, paragonata a certi studenti che abbiamo al Michelangiolo, non era neanche così molto preparata. Però lei era una persona che non ha avuto la possibilità di studiare, lei ha dovuto lasciare la scuola quando era ragazzina e ha vissuto per almeno vent’anni, se non di più, pensando alla sua istruzione mancata; e quindi, poter finalmente raggiungere questo obiettivo è stata una cosa molto emozionante per lei e anche molto toccante per noi docenti. E io vi racconto questa cosa perché vorrei che un po’ voi pensaste a quanto siete fortunati ad avere la possibilità di studiare quello che studiate. Lo so bene che magari alla vostra età l’obbligo di studiare può essere una seccatura: io la vivevo veramente come un’imposizione e non riuscivo a capire chi me lo faceva fare e perché lo facevo, ma sono cose che poi capisci col tempo. Ecco, questa persona ha passato 25 anni col rimpianto di non aver avuto la stessa fortuna che avete avuto voi, quindi colgo l’occasione per invitarvi a cercare di cogliere l’opportunità che vi è stata data – che inevitabilmente a volte vedrete come una fatica assurda, un’imposizione, etc. – e vi assicuro che un giorno vi renderete conto di quanto è prezioso quello che state ricevendo in questi momenti. Io stesso me ne sono reso conto troppo tardi, poi però ho rimediato. Ma insomma, se avessi studiato di più quando era il mio momento di studiare – è sempre il momento di studiare -, se avessi studiato di più quando la principale occupazione della mia vita era studiare, mi avrebbe fatto sicuramente bene.
6.
Ora, prima di arrivare alla domanda finale sulla vita, vorrei spostarmi sul tema cultura. Per l’appunto so che lei, prima di scegliere definitivamente di fare CTF, aveva considerato anche di iscriversi a Storia o a Filosofia. Questo particolare, insieme alla sua passione per la lettura (un’altra cosa che per l’appunto so), è una prova del fatto che lei, uomo di scienza e professore di Scienze, nutre senza dubbio anche un forte interesse per il mondo umanistico. Mi conferma questa cosa? E perché alla fine optò per il ramo scientifico?
Ok, allora, c’è da fare qualche premessa. Innanzitutto, io il mondo scientifico e quello umanistico l’uno contro l’altro armati, contrapposti, non ce li vedo. Vedo tante cose umanistiche che sono anche scientifiche e tante cose scientifiche che sono umanistiche. Ad esempio, la filologia è qualcosa che si può studiare con un approccio molto molto scientifico, come anche la storia. O viceversa, se si pensa alle passioni umane, per esempio alle neuroscienze, che sono una branca della biologia o della psicologia – dipende dal punto di vista: io penso che abbiano più a che fare con la biologia, ma forse sono di parte – esse si riverberano su alcune questioni che sono di norma considerate molto umanistiche: le emozioni, le passioni e cose simili. Secondo me ci sono tantissime connessioni tra il mondo scientifico e il mondo umanistico, perché, visti da una prospettiva diversa, sono, non dico la stessa cosa, ma hanno punti in comune. Un po’ come l’elettricità e il magnetismo, che da un certo punto di vista sono lo stesso ente che si riflette in due modi differenti nel mondo reale. E un’altra premessa che vorrei fare è che sì, io leggo molto indubbiamente, ma non era così quando avevo 18-19 anni. In realtà forse a quell’età avevo già ricominciato a leggere un po’, però io leggevo abbastanza prima delle scuole medie, anzi prima del liceo; poi al liceo ho provato una sorta di rifiuto per tutto ciò che riguardava la cultura, tra cui anche la lettura e ho iniziato a leggere un po’ dopo. Tuttavia, in effetti, nel periodo della scelta dell’università stavo iniziando a diventare un po’ più maturo, quindi forse la passione per la lettura già mi stava un po’ tornando.
Perché, però, alla fine ho optato per un ramo scientifico? Beh, per vari motivi. Innanzitutto, per la sfida. Io non mi vedevo in grado di fare un corso scientifico fino all’anno prima, forse uno o due anni prima: i miei voti in Matematica, Fisica e Scienze sono sempre stati pietosi, quelli in Scienze sono iniziati ad aumentare verso la fine del mio percorso scolastico, un po’ in quarta e molto in quinta. E da qui potremmo anche partire con una riflessione sull’effetto che hanno i voti sulla nostra psiche, ma non voglio parlarne adesso: io non sono uno di quelli che dice che i voti vadano aboliti, però bisogna spiegare bene quale sia il loro significato, questo sì; ma non voglio parlare di questo adesso. Andare a fare qualcosa di scientifico lo vedevo un po’ come una sfida e un’altra considerazione che facevo in merito alla scelta di un percorso di questo tipo riguardava la paura di perdermi qualcosa. Nel senso che io, adesso, mi sento tranquillamente in grado di affrontare un corso di laurea umanistico mentre faccio l’insegnante. Ora come ora dico che lo farò, poi magari rimando, rimando e non lo farò mai, ma secondo me lo farò. Tipo Storia, mi piacerebbe farlo. E quest’idea in realtà ce l’avevo già in mente quando avevo 18, 19 e 20 anni: magari un corso umanistico lo vedevo come rimandabile nel tempo. Mi dicevo: “Se dimostrerò a me stesso di essere veramente una persona che ama la cultura, lo farò”. E a posteriori devo dire la verità: adesso lo potrei fare, mentre non potrei dire la stessa cosa se a 20 anni avessi fatto qualcosa di umanistico e adesso mi trovassi nella condizione di volermi iscrivere a un corso come CTF. Questa considerazione sicuramente mi ha orientato nella scelta. Mi ricordo di me stesso che penso a queste cose in quinta. Ed è anche vero che molto mi ha influenzato la mia professoressa di Scienze dell’epoca, che innanzitutto mi ha trasmesso fiducia in me stesso e mi ha fatto capire che forse le scienze non erano una cosa impossibile e che avrei potuto affrontarle anch’io. Quindi è molto difficile dare una risposta definitiva a questa domanda: sono tanti i fattori.
7.
Visto che ho nominato la sua passione per la lettura, le va di parlarmi brevemente dell’ultimo libro che ha letto?
Sì, diciamo che la cosa che mi mette in difficoltà della tua domanda è l’avverbio “brevemente”, però ci si prova. Non so se ti ricordi che la settimana scorsa ti avevo detto di aver appena finito Respiro di Ted Chiang. Bellissimo: una serie di racconti fantascientifici con risvolti molto molto filosofici. E ti avevo anche detto che volevo leggere la sua precedente raccolta di racconti, Storie della tua vita, che infatti adesso ho letto. Nel frattempo ci ho inserito due dei Racconti di Pietroburgo di Gogol – tra l’altro autore meraviglioso, ma non divaghiamo. Il libro che ho finito ieri in treno, Storie della tua vita di Ted Chiang, è una serie di racconti tutti molto belli, molto apprezzabili a modo loro perché ciascuno di essi è ambientato in un universo fantastico in cui ci sono una o due cose che differiscono dal nostro universo, e l’autore utilizza questo espediente per approfondire via via uno dei temi che lo interessano. Forse ha senso parlare di Storia della tua vita, il racconto che dà il nome alla raccolta e da cui è stato tratto un film, Arrival, che non è che mi abbia entusiasmato così tanto – con tutto il rispetto per Villeneuve, che è un regista bravissimo, però chiaramente un film è un prodotto diverso rispetto a un racconto e quindi il regista ci deve inserire cose tipo la suspense, gli effetti speciali, cose hollywoodiane che nella forma scritta non ci sono -. La cosa interessante di questo racconto, secondo me, è il fatto che la protagonista sia una studiosa di linguistica e che tutta la storia si sviluppi intorno a una sfida: cercare di comprendere il linguaggio di una razza aliena. Questo tema porta inevitabilmente a una riflessione su quanto il linguaggio influenzi il nostro modo stesso di pensare e di concepire il tempo. L’interrogativo che viene posto è: come si fa a comprendere il linguaggio di qualcosa di assolutamente sconosciuto? Secondo me è molto interessante il modo in cui Chiang affronta il tempo. Tra l’altro, in questo momento, mi viene in mente anche un dettaglio, a cui ho pensato ieri mentre leggevo in treno. Il racconto è abbastanza lungo, per essere un racconto breve, quindi non sto a raccontarlo; fatto sta che all’inizio gli uomini devono imparare il modo in cui questa specie fa esperienza del linguaggio scritto e orale e dopo un po’ arrivano a comunicare argomenti scientifici. Una cosa che mi ha colpito molto è che, sebbene ci fosse una grandissima difficoltà nel comunicare certe informazioni, tuttavia uno dei concetti che gli alieni hanno capito subito – perdonatemi – è la tavola periodica. Questo particolare mi ha fatto venire in mente un altro racconto breve, Omnilingue, scritto negli anni cinquanta, in cui c’era lo stesso tema: venivano scoperti alcuni resti di una civiltà aliena ormai estinta, ma non c’era una stele di Rosetta per capire il loro linguaggio. E anche lì la chiave di volta fu qualcosa di effettivamente universale: la tavola periodica. Anche se gli alieni avevano sviluppato una cultura totalmente differente, su un altro pianeta, su un altro tutto, la cosa che accomunava noi e loro era sicuramente il modo in cui disponiamo gli elementi della tavola. Ecco, lì era il tema focale del racconto, mentre in Chiang è soltanto un piccolissimo dettaglio che però mi ha colpito molto, perché non è un caso. Tuttavia il tema principale del racconto è l’influenza del linguaggio sul nostro modo di pensare e di concepire il tempo. E se tra tutti questi racconti – sono tipo otto o nove, tutti molto interessanti – ho scelto proprio questo, non è soltanto perché è l’unico famoso perché ne è stato tratto un film – anche se, ripeto, il film non mi ha entusiasmato quanto il racconto, però è una cosa che dico sempre dei film tratti dai racconti: sono una di quelle persone sempre noiose che deve dire: “Sì, bello il film, ma il libro è meglio” . No, ho scelto proprio questo perché penso che voi studenti del liceo classico riflettiate spesso sul rapporto che intercorre tra il nostro linguaggio, il nostro modo di pensare e il nostro modo di concepire il tempo. Sono stato abbastanza breve?
Beh, diciamo che mi sono abbastanza pentito di averle detto “brevemente”, quindi, se ha altre cose da aggiungere, mi farebbe molto piacere.
D’accordo, allora parlo proprio dell’ultimo racconto che ho letto, che magari può essere interessante. L’ultimo racconto di Storie della tua vita, Liking What You See: A Documentary, parla di un’ipotetica invenzione che è in grado di “spegnere” dal nostro cervello – grazie ai progressi delle neuroscienze, eccetera eccetera. – la percezione della bellezza del nostro interlocutore. Tutto il racconto si snoda attraverso una serie di riflessioni su quanto l’aspetto esteriore delle persone ci influenzi e su come sarebbe un mondo in cui le interazioni tra esseri umani non fossero influenzate dall’avvenenza dei vari soggetti della conversazione. Poi questo è l’espediente narrativo; il racconto si sviluppa attraverso alcune dichiarazioni all’interno della scuola in cui si sperimenta questa tecnica, che si chiama calliagnosia – voi dovreste capire bene che cosa significa. E la cosa interessante è che in realtà l’autore non è in grado di dare una risposta definitiva. Se noi percepiamo la bellezza un motivo c’è – direi un motivo evolutivo – e la bellezza ha sicuramente un significato, ma è anche vero che spesso rischia di distorcere i nostri pensieri. Questo racconto verte su questo tema: la bellezza delle persone.
8.
Adesso toccherebbe alla domanda sulla vita, ma mi sono ricordato che volevo farle anche una domanda sulla nostra città. Se non sbaglio lei non si è mai mosso più di tanto da Firenze, diciamo che ha sempre vissuto qui. Le piace Firenze? Com’è viverci?
Allora, sicuramente se non mi piacesse non ci vivrei. Quindi sì, Firenze mi piace molto, mi piace molto vivere a Firenze, mi piace molto girarla; ancora non mi sono stufato di questo e penso che non mi stuferò mai. E’ però una questione interessante perché io non ho mai abitato in un’altra città e non lo so se questa è una cosa bella; sicuramente traspare un forte attaccamento alla città dove sono nato. E’ anche vero che alla mia età sono arrivato senza termini di paragone e forse mi avrebbe fatto bene vivere altrove. In una domanda precedente ho detto che rimpiango di non aver fatto un’esperienza all’estero durante l’università, questo sì. Tanto avrei comunque fatto in tempo a tornare a Firenze dopo: conosco tantissime persone che, nate a Firenze e cresciute insieme a me, hanno vissuto fuori anche per anni, anche per decenni in realtà e poi sono tornate; quindi non è una cosa così impossibile. Conosco tante persone che hanno vissuto fuori e hanno deciso di tornare a Firenze, il che da un certo punto di vista è una bella cosa perché posso frequentare persone che hanno avuto esperienze anche fuori e perché mi dimostra che forse tutto questo attaccamento alla città natale è una cosa umana. In più, se tante persone che vanno via poi ritornano, allora vuol dire che qui si sta bene. Da un altro punto di vista, invece, mi chiedo se queste non sono cose che racconto a me stesso per convincermi di aver fatto la scelta giusta. Non so se è stata la scelta giusta vivere sempre nella città in cui sono nato, anzi forse direi di no. Quindi bene vivere a Firenze, mi piace Firenze, ma ogni tanto penso a che cosa avrei potuto fare se invece avessi cambiato città, se avessi cambiato vita e cose simili. Credo che sia abbastanza normale porsi certe domande. Se alla fine devo fare un bilancio delle cose belle e delle cose brutte, concludo dicendo che è veramente bello stare a Firenze, però non so se sono cose che mi racconto per vivere meglio. Non so se altero i metri che utilizzo per valutare le cose in modo tale da giovare alla mia psiche. Non so se altero la realtà dei fatti in modo tale da farmi star bene. Non lo so e peraltro anche questo è un tema di Ted Chiang. Però tutto sommato devo dire la verità: mi piace stare a Firenze.
9.
E ora finalmente la domanda sulla vita, domanda che mi è stata ispirata ieri dalla lettura del Dialogo di Tristano e di un amico di Leopardi, in cui Tristano, alter-ego del poeta, incazzato nero col secolo decimonono, tra le tante cose, dice: “Gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole o deve vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini, universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non esser nulla, né di non aver nulla a sperare”. E questo perché “gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita”. Tralasciando le mogli, cosa ne pensa delle parole di Tristano? Possiamo dire, usando un linguaggio più scientifico, che il solo e unico scopo dell’Uomo consiste nel sopravvivere e che per sopravvivere esso è disposto a fare e soprattutto a convincersi di qualsiasi cosa?
Ok, questa è una domanda a cui non è banale rispondere, ma ci provo. Innanzitutto, mi pare che riprenda proprio quello di cui stavo parlando prima quando ho detto che non so se penso davvero che vivere a Firenze sia stata la scelta giusta oppure è una bugia che mi racconto per stare più in pace con me stesso. Leopardi parla proprio del paese in cui si vive, che si crede uno dei migliori della terra abitabile. Sempre molto attuale. E inoltre Leopardi, che era uno che la vita umana la conosceva bene, coglie qua una questione anche molto scientifica, per ritornare al tema precedente secondo cui il sapere umanistico e quello scientifico non è che siano così scollegati. Perché è vero che noi ci raccontiamo bugie e tendiamo a considerare vero il bello, quando dovrebbero essere considerate due cose separate. E invece noi, per una sorta di difesa psichica, abbiamo la tendenza a credere ciò che ci piace di più. E penso che molti di voi che sono o sono stati miei alunni sanno che adesso dovrei andare a parare sui bias cognitivi. Sappiate che è esattamente quello di cui sta parlando Leopardi. Noi, per sopravvivere, siamo disposti anche a mentire a noi stessi e a convincerci di qualunque cosa. Questo discorso può essere affrontato in modo molto scientifico: gli esseri umani che adesso sono vivi sono figli di quelli che sono sopravvissuti e che hanno trasmesso loro le proprie informazioni genetiche; quindi essi hanno tutti gli adattamenti ottimali per sopravvivere in un certo ambiente. Ecco: in un certo ambiente è molto più ottimale credere a quello che ci raccontiamo per sopravvivere piuttosto che guardare in faccia la realtà. Leopardi parla del marito che ignora il tradimento della propria moglie. Sì, questa cosa ha senso da un punto di vista evolutivo perché permette di mantenere una relazione più stabile e permette di crescere la prole, ragionando in termini proprio darwiniani – mi dispiace -. E se questa cosa a voi non piace o la reputate inaccettabile, oppure dite: “No, la vita non può essere una cosa così banale!” è per lo stesso identico motivo che vi dice Leopardi. Se non vi piace è perché voi tendete a sovrapporre quello che vi piace con quello che effettivamente trovate reale. Ed è una cosa che serve alla vostra psiche per difendervi dalla verità. Perché la verità è una cosa da cui a volte dovete difendervi. Quindi sono d’accordissimo con Leopardi e Leopardi era veramente un grande e qui fa un discorso molto scientifico. E noi possiamo studiare le bugie che raccontiamo a noi stessi, ma non entro in questo dibattito perché sennò divento noioso. Però sono perfettamente d’accordo e infatti nella domanda precedente ho tenuto in considerazione che, magari, gli aspetti che considero belli della mia vita, li considero tali per illudere me stesso perché ne ho bisogno per andare avanti e vivere bene. Magari quello che io considero bello non corrisponde al vero. E secondo me la scienza ti insegna tantissimo a capire i meccanismi del tuo pensiero: ogni volta che faccio qualcosa oppure ho una qualche convinzione mi chiedo: “Ma questa cosa la considero vera perché effettivamente ho dati che mi portano a ritenere che sia vera – nei limiti entro cui possiamo conoscere la verità ovviamente – oppure è una cosa che mi fa comodo pensare a causa di un automatismo mentale che mi porta a considerare vero ciò che mi piace che sia vero?”. Leopardi questo l’aveva capito. E, secondo me, questi discorsi possono essere uno spunto anche per voi per riflettere, innanzitutto, su quello che pensate e sul perché lo pensate e in secondo luogo su come in realtà non ci siano grosse divisioni tra il mondo scientifico e quello umanistico: dipende soltanto dalla prospettiva con cui guardi le cose.
(A questo punto solo su Spotify trovi il folle Excursus sui pinguini che se te lo perdi sei un pinguino macaroni)
10.
Vorrei fare un’altra considerazione sempre su questo dialogo. Tristano, alla fine del dialogo, dopo aver detto di calpestare “la vigliaccheria degli uomini”, di rifiutare “ogni consolazione”, di avere “il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza” e infine di “accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”, si dichiara “infelicissimo” e confessa di ardire “desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi”. Ora, tralasciando la disperazione di Leopardi, è sicuramente vero che a volte dirci delle verità può farci star male e renderci tristi. A questo proposito, lei crede che sia meglio vivere meno felici ma più sinceri o più felici ma nella menzogna?
Allora, anche questa è una domanda bella, non sono sicuro di essere in grado di rispondere, quindi forse la aggirerò. Innanzitutto, a me non piace moltissimo lo stereotipo del Leopardi depresso, e non sono neanche sicuro di quanto esso corrisponda alla realtà dei fatti. Non lo so e, dato che non insegno italiano, non approfondisco questo discorso per paura di tirare qualche sfondone; però quello che Leopardi scrive ci offre tantissimi spunti di riflessione. Io condivido – come ho già detto prima – la teoria secondo cui noi abbiamo la tendenza a raccontarci menzogne per vivercela meglio, e questo perché è un’idea studiata, studiatissima e supportata dalla scienza, di cui si può parlare anche all’infinito. Quello invece che la scienza non può dirci è cosa sia meglio. Io, sinceramente, non lo so se è meglio vivere meno felici ma più sinceri o più felici ma nella menzogna. Sicuramente un po’ di menzogne ci aiutano a guardarci allo specchio la mattina, ci aiutano ad andare avanti e cose simili. È vero che dopo un po’ è inevitabile chiedersi sempre: “Ma io quello che faccio lo faccio per raccontarlo a me stesso o sono animato da qualcosa di più genuino?”. Senza dubbio è necessario pensare anche alla verità dietro ai nostri pensieri e a quanto i nostri pensieri rispondano al vero. Sennò si finisce per vivere in un mondo di favole e a me non piace l’idea di vivere in un mondo falsificato dalle mie stesse convinzioni. A quel punto, speri inevitabilmente che non arrivi mai quel giorno oppure quel giorno arriverà e sarà tipo… lo strappo del cielo di carta? Non voglio fare troppi excursus su argomenti che conoscete meglio di me, ma è vero che accumulare menzogne potrebbe comunque portarci, prima o poi, a renderci conto che tutto ciò che abbiamo vissuto finora era solo una bugia. Tuttavia, secondo me, non è questo il motivo per cui dovremmo cercare di dirci più verità. Innanzitutto, è una bella sensazione riuscire a capire quello che è veramente il bene per te stesso. La consapevolezza, alla fine, può portarti anche a maggiore felicità – ammesso e non concesso che l’unica ragione per cui stare a questo mondo sia vivere felici; io la pensavo così alla vostra età ma adesso non ne sono più tanto convinto. Più invecchio – se qualche mio collega mi sta ascoltando mi perdoni se uso questo termine – diciamo, più cresco, più mi rendo conto che forse perseguire la felicità a ogni costo non è che ti faccia vivere meglio. Ma il vero problema è che io non so che cosa voglia dire vivere una buona vita o viverne una cattiva e non penso che ci sia una risposta universale a tutto questo. Posso sempre fare un sacco di riflessioni e vi assicuro che ne faccio, ne faccio tante; però non arrivo mai a una risposta vera. So che in questo momento potrei andare avanti per ore a parlare di questo argomento, ma finirei per girarci intorno perché non so rispondere. Secondo me, bisogna trovare un equilibrio tra le menzogne che ci raccontiamo e l’indagare a fondo nella realtà. Dove si trovi questo equilibrio nessuno lo sa e io non penso neanche lontanamente di sapere dove si trovi il mio. So che ogni tanto penso a cosa penso, mi rendo conto delle bugie che mi racconto e cerco di andare avanti; però, allo stesso tempo, ho paura di scavare troppo a fondo: mi sembrerebbe quasi di risvegliare il Balrog… E direi che con la citazione del Signore degli Anelli posso concludere qua…
(Excursus su Leopardi su Spotify)
Grazie mille, prof, davvero. L’intervista è finita, ma non sono ancora finite le sorprese. Perché volevo ricordare che lei, che a quanto pare scrive racconti, ha scritto un racconto enigmatico per noi del Miche. Ci vuole spiegare di che si tratta?
Sì, allora, innanzitutto “io scrivo racconti” è un parolone, comunque sì, scrivo tante storie, che però tengo sempre per me. Scrivo perché semplicemente mi piace scrivere ed è una cosa che ho iniziato da adolescente, anche se all’epoca era per creare avventure di Dungeons & Dragons – e questo è tutto un altro discorso -. Le mie storie in genere nessuno le legge, tranne me: sono nel mio computer o addirittura nei quadernini. Lì ci metto un pochino più di cura, perché mi piace. Ma perché ho scritto un racconto enigmatico del Miche? L’idea mi è venuta per un altro motivo. Dovete sapere che io e Marco ci siamo già visti una settimana fa e io non ero proprio sicuro di poter rispondere a tutto: quindi ho usato un espediente che ho trovato in un romanzo che ho letto quest’estate, Nella quarta dimensione, che tra l’altro fa parte di una trilogia, ma non è questo il punto. Il punto è che c’è una situazione in cui due persone si rincontrano dopo centinaia di anni e hanno la possibilità di interagire, di parlare. Lui conosce dei segreti che non può rivelare a lei. La conversazione è controllata: c’è un semaforo. Finché il semaforo è verde, i controllori consentono tranquillamente la conversazione; se il semaforo diventa giallo, i controllori stanno dicendo che bisogna cambiare argomento e non proseguire oltre; se il semaforo diventa rosso, entrambi vengono uccisi. Ecco, lì l’espediente narrativo è che lui racconta ciò che vuole dire sotto forma di fiaba, usando metafore che i controllori non riescono a cogliere e che anche gli altri fanno molta fatica a comprendere. E a me questo stratagemma del semaforo è servito per impostare il nostro precedente incontro, per far capire quali argomenti volevo evitare. Poi però, ripensando a quella storia, mi sono detto: “Dai, quasi quasi passo alla seconda parte di questa vicenda e mi metto a scrivere un racconto metaforico che i miei ascoltatori devono essere in grado di capire. Perché no?”. E quindi ho scritto questo racconto e l’ho scritto molto in fretta perché così mi è venuto male, e questa è una cosa che serve a me: non avrei mai il coraggio di somministrarvi un racconto per il quale mi sono impegnato, e quelli infatti non li legge nessuno. La mia idea era scrivere una favola per bambini per lanciarvi una sfida: riuscite a capire la metafora sul Michelangiolo? In realtà, ce ne sono più d’una di metafore. Se qualcuno riesce a coglierla, posso svelargli qualcosa di interessante – ovviamente non posso dire cosa. Posso dirvi che chiaramente sono vincolato dal mio contratto e dalla mia legge morale: non è che posso rivelare dei segreti di un alunno oppure delle cose sugli scrutini. Tuttavia, vi assicuro che, se qualcuno di voi riesce a capire, gli potrò dire cose interessanti…
È stato veramente un piacere, una bellissima giornata, una bellissima situazione, siamo in un bellissimo posto. Vorrei dire che non vedo l’ora di rivedervi, ma forse questa cosa vi metterebbe un po’ d’ansia, quindi godetevi questo periodo e quando ci dovremo rivedere, ci rivedremo, anche se lo so che per molti di voi sarà un impatto. E’ bello stare con voi.
(Su Spotify – che ve lo dico a fare – trovate l’audio in cui il prof. legge il racconto)
Uno sguardo dal Paramichelangiolo
racconto di Francesco Biondi
Il popolo di Lagoniam era in subbuglio: la Bestia era arrivata e pretendeva in tributo dei poveri pescatori. La Bestia non era come quelle delle altre storie tramandate tra i pescatori. Non si trattava di un enorme squalo assassino o di un serpente marino che inghiottiva intere barche.
Questa Bestia era diversa.
La sua presenza era stata avvertita più volte vicino alla Baia di Cacao, e i racconti dicevano che nonostante le gigantesche dimensioni si muoveva rapida e con un silenzio sovrannaturale. Alcuni giuravano di aver visto in lontananza un’ombra mastodontica con due enormi occhi gialli che brillavano nel buio della notte, altri parlavano di un canto strano e ipnotico che proveniva dal mare. Nessuno che aveva visto la bestia da vicino era riuscito a raccontare l’esperienza; e i pochi che l’avevano avvistata da lontano narravano che la Bestia fosse in grado di alterare i sensi della preda, impedendo di prevedere il suo attacco.
La popolazione dell’Isola di Arret, di cui Lagoniam era il più grande villaggio, era terrorizzata. Il vecchio Xanthos, il più anziano dei pescatori, diceva: “La Bestia è un cattivo presagio. Non sappiamo da dove venga. Forse gli abitanti del Vasto Luceno hanno trovato il fantomatico varco dimensionale che ci unisce e lo hanno disturbato. Dobbiamo chiudere il porto e smettere di pescare fino a quando la Bestia non sarà sparita!”.
“Se il popolo del Vasto Luceno avesse fatto qualcosa qualcuno di loro dall’animo particolarmente nobile ce l’avrebbe comunicato. No: la Bestia proviene senza dubbio dall’Altrove. Dobbiamo fare qualcosa!” rispose Ian, un pescatore proveniente dal paese della Rupe. Il paese della Rupe era un posto periferico dell’isola di Arret, pieno di persone combattive e mai disposte ad arrendersi. Ma gli abitanti della Rupe erano molto ammirati per la loro cultura: nonostante fossero pescatori, trascorrevano molte ore nella loro biblioteca, che si narra fosse in contatto diretto con una biblioteca incantata di un altro mondo. Volevano trovare la Bestia e per farlo dovevano indagare nell’Altrove. Ma arrivare all’Altrove era un viaggio pieno di pericoli: occorreva passare dall’Isola dei Cardatori fino ad arrivare all’Isola del Limbo, che connetteva i due piani di esistenza. E una volta giunti nell’Altrove si sarebbero trovati disorientati e sconvolti.
Il vento soffiava forte sulla costa di Lagoniam mentre il popolo si riuniva sulla piazza principale, cercando di capire cosa fare. Ian, con il volto segnato dal sole e gli occhi pieni di determinazione, sapeva che il suo destino e quello degli altri pescatori dipendevano da un’unica, terribile decisione: affrontare la Bestia e scoprire il mistero che la circondava.
“Non possiamo continuare a vivere nella paura,” disse Ian, con la voce che risuonava forte nel silenzio pesante. “Se la Bestia arriva davvero dall’Altrove, dobbiamo capire la sua natura, e fermarla prima che sia troppo tardi.”
Il vecchio Xanthos, che aveva vissuto più anni di quanti Ian potesse immaginare, annuì lentamente. “So che hai ragione, ragazzo. Ma andare all’Altrove… è un’impresa che in pochi hanno osato intraprendere. La terra dei Cardatori è un posto dove il tempo e lo spazio si piegano. E l’Isola del Limbo? È un passaggio tra due realtà dove il mondo delle cose visibili e quello delle ombre si toccano. Chi ci va, non sempre torna.”
“Perché si perde nella nebbia dell’Altrove, dove nessuno riesce a ritrovare sé stesso” aggiunse una voce femminile dal fondo della piazza. Era Lira, la giovane guaritrice del villaggio, che da tempo studiava le antiche leggende nella biblioteca della Rupe. “L’Altrove è un piano di esistenza separato dal nostro. Non è solo un luogo geografico, è uno stato dell’anima. Entrarci può cambiarti in modi che non possiamo nemmeno immaginare.”
“Ma dobbiamo provarci!” ribatté Ian con passione. “Non possiamo aspettare che la Bestia arrivi e distrugga il nostro mondo. Se i pescatori sono il tributo che essa cerca, allora dobbiamo impedire che accada.”
Il consiglio si riunì, e dopo ore di discussioni concitate, alla fine si decise: Ian, con l’aiuto di Lira e altri coraggiosi compagni, avrebbe intrapreso il viaggio verso l’Altrove. Dovevano attraversare l’Isola dei Cardatori per arrivare all’Isola del Limbo, la soglia tra il mondo visibile e quello invisibile.
Il giorno della partenza, il mare sembrava più calmo del solito. Ian e il suo gruppo si avventurarono sulle barche, lasciando dietro di sé l’isola che conoscevano da sempre. Man mano che si allontanavano dalla riva, l’aria diventava più densa, e l’orizzonte cominciava a sfumare in un’ombra inquietante. “Non è solo il mare che cambia,” disse Lira, osservando la nebbia che si alzava dalle acque. “Siamo già vicini all’Isola dei Cardatori.”
Arrivarono finalmente a quella strana terra, dove tutto sembrava sospeso in un’eterna quiete. Sentivano il vento sussurrare segreti che nessun mortale avrebbe mai potuto comprendere completamente. Tra i sussurri udirono anche il significato di questa storia, ma non se ne accorsero. Il gruppo si addentrò nel paesaggio surreale, attraversando sentieri tortuosi e valli segrete. Il tempo sembrava farsi più lento, come se osasse sfidare la realtà stessa. Lira, che aveva studiato le leggende degli antichi tessitori del fato, sapeva che ogni parola pronunciata in questo luogo avrebbe potuto cambiare il corso del loro destino ed echeggiare per i secoli successivi, o forse addirittura per i precedenti.
Improvvisamente si fermò, come se avesse percepito qualcosa. Una figura alta e spettrale apparve nella foschia, avvolta in una tunica evanescente tessuta con fili di pensiero illogico. Lira riconobbe subito l’imponente stregone, poiché aveva letto il suo nome in un racconto della biblioteca della Rupe: un bizzarro racconto che nelle sue parole pareva contenere fisicamente il mago. Fu un’esperienza veramente strana: appena finì di leggere le parole relative al mago svanirono dalla pagina, come se volessero insediarsi nella mente di Lira per tornare a casa.
Non poteva sbagliarsi: di fronte a loro si ergeva il terribile stregone Aoristos.
“Chi siete, viaggiatori dell’altro mondo?” chiese Aoristos con una voce proteiforme che sembrava provenire da ogni epoca passata, presente e futura. “Stiamo cercando l’Altrove,” rispose Ian, con tono deciso. “Abbiamo bisogno di sapere cosa c’entra la Bestia con la nostra isola, e come possiamo fermarla.”
La figura rimase in silenzio per un momento, studiando i loro volti. Poi, con un gesto lento e solenne, sollevò una mano verso il cielo, e una luce argentea si diffuse nell’aria “Per raggiungere l’isola del confine, dovete guadagnarvi il diritto di passare. Qui tessiamo i fili dell’esistenza, e voi dovrete affrontare i nodi delle vostre scelte passate.”
Ognuno di loro fu condotto davanti a un telaio mistico. Ian vide il filo della sua vita intrecciato con un nodo scuro: il giorno in cui aveva lasciato la sua famiglia per inseguire i propri sogni. Aveva trascurato ogni affetto per passare giorni e notti nella Biblioteca della Rupe, una cosa insolita per un pescatore. In quella biblioteca era accaduta una cosa tremenda che non riusciva a ricordare, qualcosa che aveva prosciugato la linfa vitale dei suoi compagni. Non riusciva a ricordare… o non voleva farlo? O aveva alterato volontariamente i suoi ricordi? Per sciogliere quel nodo, dovette combattere contro la sua stessa memoria; cosa che fece accettando il dolore che aveva causato e promettendo di rimediare. Fu l’ultimo ad abbandonare il telaio: forse aveva appena superato la sua prova più ardua.
Quando tutti superarono la prova, Aoristos li benedisse: “Avete dimostrato di saper cardare il vostro passato per tessere il vostro futuro. Ora potete proseguire verso l’isola di mezzo. Guidate le vostre imbarcazioni con sapienza e coraggio verso il portale di luce, e lanciatevi attraverso di esso, per quanto ciò possa sembrare un atto di pura follia. Badate ai vortici che si agitano nelle vicinanze: potrebbero inghiottirvi, e sarebbe il minore dei mali! Il vostro atto esiziale scatenerebbe in questo mondo entità esterne di nefanda genìa! Navigate lesti e decisi come la freccia che punta al cuore della preda! Immergetevi nella luce come l’eco delle mie parole si immerge nell’eternità! Una volta attraversato il confine legate al vostro cuore queste parole: l’Altrove altro non è che un simulacro del vostro più profondo essere. Lo potete affrontare. Ci rivedremo”.
La sicurezza dello stregone nel pronunciare le ultime due parole rincuorò il gruppo. Partirono verso l’Isola del Limbo, il morale era alto mentre correvano verso le loro navi, complimentandosi a vicenda dandosi pacche sulla schiena e pure qualche goliardica spallata. Ma l’entusiasmo scemò rapidamente mentre si avvicinavano alla loro meta.
L’Isola del Limbo si ergeva nel cuore di un oceano in tempesta. Le onde si abbattevano contro gli scogli neri come l’ossidiana, i fulmini illuminavano un cielo perennemente scuro. Al centro, una voragine circondata da rocce marmoree emetteva una luce spettrale. “Ѐ questo il portale per l’Altrove, sono sicura,” disse Lira, guardando la luce tremolante. “Una volta attraversato, non ci saranno più confini netti tra ciò che è reale e ciò che è ombra. Ma dobbiamo arrivarci vivi!”. Si formavano in continuazione vortici d’acqua che sfioravano pericolosamente le fragili barche. L’animosità delle onde costringeva le imbarcazioni a un moto desultorio molto diverso da quello rettilineo indicato da Aoristos. Tuttavia il gruppo era composto da abili manovratori, riuscirono a concentrarsi sulla traiettoria e infine a tuffarsi nel portale di luce.
Attraversato il portale, il mondo si trasformò in un piano etereo, una realtà-specchio fatta di ombre e luce fluttuante. Ogni oggetto concreto qui diventava la sua immagine speculare, ogni terra conosciuta aveva qui il suo riflesso impalpabile. I ragazzi erano sconvolti, ma dovevano proseguire.
La prima tappa fu la Terra degli Animali Selvaggi, il riflesso astrale della Terra dei Cardatori. Qui, li raggiunse Aoristos, in veste di custode dei mondi. Paradossalmente la sua tunica, che nel mondo materiale era evanescente e quasi impalpabile, in questo regno etereo pareva molto più consistente, e anche un po’ sdrucita; ma lo stregone manteneva la sua aura di solennità. “Per proseguire,” disse Aoristos, “dovrete confrontarvi con il vostro lato ferale. L’Altrove dissipa l’anima di chi nega la sua stessa natura.” Si ritrovarono immersi in una foresta di animali che, immobili, li osservavano. Inspiegabilmente i viandanti vennero separati, e ognuno fu costretto ad affrontare versioni selvagge di sé stesso; Ian venne aggredito da una sorta di rapace primordiale dallo sguardo insolitamente stralunato, ma che viveva solo per cacciare e distruggere. A lungo combatterono, col tempo l’aggressore pareva diventare sempre più forte e aggressivo. Ian allora comprese l’inanità della sua lotta, e, accettando il lato oscuro della sua natura, trovò il suo equilibrio tra ragione e istinto. Si arrese al suo aggressore e, proprio mentre la fiera stava assestando un colpo fatale, svanì sconfitta. Ian aveva vinto, ma a che prezzo? Aveva forse ammesso che la sua missione era inutile?
Proseguirono in quel mondo sempre più sfocato. Aoristos, che stava invece diventando tangibile ma con la tunica sempre più logora, li guidò al successivo reame riflesso: il Tornado, la versione astrale di Lagoniam. Il Tornado era un vortice di rovine e vento, un tempo dimora di grandi studiosi. Al centro, la Biblioteca Oscura, un’enorme struttura opalescente, conteneva ogni conoscenza perduta. “Siamo nel riflesso della Biblioteca della Rupe: qui troveremo il nome della Bestia!” disse Lira con entusiasmo.
Mentre cercavano tra gli scaffali, furono attaccati da ombre viventi: i frammenti delle loro paure e insicurezze. Ma imperterriti continuavano mentre il vento si faceva sempre più ululante. “Ho trovato uno scolio sulla Bestia in questo vecchio libro, Il Potere della Mente!” esclamò Lira “Dice che la Bestia è il guardiano del confine, e solo chi offre ciò che ama di più potrà affrontarla. Non ci dà molto. Continuiamo a cercare: abbiamo poco tempo!”. Erano sempre più deboli ma durante la ricerca Ian ebbe una visione “Ho capito cos’è questo posto.” disse in tono solenne, pervaso da una lume di sapienza ultraterrena, “la Biblioteca della Rupe è certamente il riflesso di questa biblioteca… ma a sua volta questo posto è la proiezione di un altro luogo. Io sono lì. Vedo… sono… davanti a una finestra. Da qui vedo una cupola a base ottagonale e scorgo una sfera dorata con una croce sulla sua sommità.” Lira lo interruppe “non c’è tempo per questo!” ma Ian proseguì, sempre più ieratico “mi volto e sento un Essere Malvagio… parla… dice cose incomprensibili… protoni? Elettroni? Aspetta, forse sta dicendo una formula per sconfiggere la Bestia. Ciclopentanoperi… nulla di quello che dice questo individuo ha senso. Basta: esco dalla porta… mi trovo in un groviglio di scale e di corridoi che mi confonde ancora di più. Forse sono in un labirinto… se riuscissi a proiettarmi all’esterno potrei trovare il Crocevia, dove i mondi si sovrappongono…” Ian era sempre più assorto mentre le sue ombre turbinavano attorno a lui avvolgendolo in una spirale che ogni istante diventava sempre più nera e tangibile. Lira lo afferrò e lo scosse “Ian! Torna tra noi! Stiamo cercando di salvare noi stessi e la nostra terra, penseremo un’altra volta alle tue analisi cosmologiche! Focalizzati sulla Bestia!”. Poi, completamente disorientata, decise di ricorrere alla sua ultima risorsa: la bibliomanzia. Si concentrò intensamente su La Biblioteca di Babele, un racconto proveniente da un universo situato oltre il Crocevia, e, proprio mentre il pavimento sotto di lei stava iniziando a frantumarsi, aprendo una pagina a caso con suo sommo stupore trovò un’altra nota sulla Bestia. La lesse subito ad alta voce: “Il vero potere della Bestia non è distorcere i sensi umani, ma lo spazio intorno a sé! Lei ha potere sulle regole della prospettiva. Ma che significa? Non capisco! Chi lo ha scritto? Non ci sono nomi, non c’è altro… va bene: ci faremo bastare questo! Adesso scappiamo!”. Di Aoristos non c’era più alcuna traccia: era svanito all’interno di un racconto, per tornare a farsi leggere nella Biblioteca della Rupe.
Con questa rivelazione, e con Ian sempre più scosso dalla sua visione, si avventurarono verso l’ultima tappa: la Terra della Bestia. Questa era il riflesso della Baia di Cacao: il luogo dove gli amanti usavano scambiarsi i baci, arrivando anche da molte isole lontane solo per compiere questo semplice gesto. Ma la Terra della Bestia era distorta al punto di non ricordare neanche lontanamente la bella baia: questo reame era un mare nero immerso in una notte eterna. Improvvisamente la Bestia comparve come dal nulla, di proporzioni colossali già da una notevole distanza. Subito si accorse della presenza del gruppo. “Siete venuti per affrontarmi?” ruggì, mentre i suoi occhi sulfurei brillavano come due astri alimentati da un’eterna perfidia.
Ian rispose: “Sì, ma non siamo soli. Nella Biblioteca abbiamo capito che l’Altrove non è altro che una metafora. Ma noi stessi, anche nell’isola di Arret, siamo ingabbiati dentro l’ennesima metafora: in questo momento ci sono delle persone che stanno parlando di noi, oltre il Crocevia, sedute comodamente in un posto dove si beve e si discute. Ma questi individui stanno parlando a loro volta ad altre persone, che apprendono la nostra storia usando uno strumento che io non posso comprendere. Ecco, queste ultime persone altro non sono che i nostri riflessi in un altro mondo; allora gli chiediamo: «Se mai la nostra voce può giungere fino a voi, che in realtà siete noi: cosa dobbiamo fare?»”.
Libri citati:
- – Respiro , Ted Chiang (2019)
- – Storie della tua vita , Ted Chiang (2002)
- – Racconti di Pietroburgo, Nikolaj Gogol’ (1842)
- – Omnilingue, Henry Beam Piper (1957)
- – Operette morali, Giacomo Leopardi (1835)