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Il (non) senso de “La Cina prima del comunismo”

Torno a casa e nella cassetta delle lettere trovo un dépliant che sponsorizza uno spettacolo: “Shen Yun”, ossia “La Cina prima del comunismo”. Ce l’ho già presente perché mi era capitato spesso di vedere degli spot dello stesso spettacolo su YouTube o alla televisione.

Non mi turba tanto la massiccia campagna pubblicitaria, addirittura porta a porta. Più che legittimo. Semmai, è il voler porre l’accento sullo slogan “La Cina prima del comunismo”. “Scopri la Cina prima del comunismo”, è la prima cosa che si sente nello spot, oltre ad essere il sottotitolo dello spettacolo su volantini e manifesti. Perché questa insistenza nel sottolineare la riscoperta di una Cina antica, affascinante, esotica, che quel “prima” retrodata, come se il comunismo l’avesse cancellata? Intanto, vediamo perché le cose non stiano esattamente così.

Lo spettacolo “Shen Yun” mischia danza e musica, e si rifà all’antico genere dell’opera cinese. Viene promosso, con tournée in tutto il mondo – ora, appunto, anche in Italia -, da affiliati al gruppo religioso Falun Gong. Falun Gong è stato fondato nei primi anni ‘90. Dichiarato illegale dal governo cinese, ha trasferito la sua sede negli Stati Uniti, dove si è “distinto” per un’attività di disinformazione tramite un canale ufficiale, il The Epoch Times – uno dei media più fedeli a Trump durante la sua presidenza -, e per posizioni severamente tradizionaliste, complottiste e omofobe. Insomma, un’associazione di fedeli espulsi dalla Cina: si può già avere un’idea chiara del perché questo spettacolo sia, per sua stessa natura, una manifestazione anticomunista.

Ora, cos’è l’opera cinese? È un mare magnum di generi teatrali – direi quasi circensi – che si sono sviluppati nei secoli nelle varie regioni della Cina. Sono più che altro spettacoli di natura popolare; lo scrittore Lu Xun (ne La vera storia di Ah Q e altri racconti, Feltrinelli 1970) li descrive così: 

l’opera cinese è piena di gong, di cembali, di grida e di salti, al punto da far girare la testa allo spettatore; che è proprio inadatta a rappresentarsi in teatro, ma rappresentata in campagna e vista da lontano, ha il suo fascino”. 

Quello che propone lo “Shen Yun” sembra una formula più composta, erede degli spettacoli alla corte dell’imperatore, e nota come “opera di Pechino”. L’opera di Pechino è il genere di opera cinese più diffuso, anche perché, all’inizio del Novecento, fu quella più permeabile alle influenze occidentali – e infatti, anche lo stesso “Shen Yun” si fa accompagnare da un’orchestra con strumenti occidentali.

Ho utilizzato la parola “sembra” perché, nelle sponsorizzazioni dello “Shen Yun”, non si fa mai menzione del genere dell’opera cinese. Ma a volersi fidare – e non voler credere che sia solo uno specchio per le allodole -, e cercare nella cultura cinese un corrispettivo dello spettacolo che propongono, possibilmente di natura molto antica, si può ipotizzare solo un revival dell’opera, appunto.

Comunque, dire che “dopo decenni di dominio comunista gran parte di questa cultura ispirata dal divino è stata distrutta o dimenticata”, come sta scritto sul sito della tournée, è un’imprecisione. Detta da cinesi, che conoscono, o dovrebbero conoscere, la storia del loro paese, per di più perseguitati dal regime, sa molto di faziosità.

Non è stato il comunismo ad azzerare un’intera cultura (perché, e lo vedremo, un tentativo di azzeramento c’è stato), né in “decenni di dominio” si è minato progressivamente alle tradizioni e alle usanze cinesi. Ed oggi, nessun cinese ha tantomeno “dimenticato” il passato imperiale e confuciano. Anzi, i primi a ricordarsene, e a rimarcarne l’importanza, sono proprio i dirigenti del Partito Comunista.

Quando si parla di distruzione delle radici della Cina sotto il regime comunista, ci si riferisce al periodo della Rivoluzione Culturale, che ha inizio nel 1966, dunque quasi vent’anni dopo la presa del potere da parte di Mao e l’instaurazione del comunismo. Mao era, intimamente, un antitradizionalista, ma prima del ‘66 non aveva mai messo in pratica questo suo risentimento, che c’era in potenza, verso i “quattro vecchi” – e cioè vecchie idee, vecchia cultura, vecchie abitudini e vecchie usanze. 

La Rivoluzione Culturale si inserisce in un contesto di lotta politica e di mantenimento della leadership: Mao, negli anni ’60, percepisce un indebolimento del proprio potere, a causa dell’affermazione di personalità avverse all’interno del Partito (tra cui Deng Xiaoping) e di un crescente malcontento popolare per i risultati fallimentari del “Grande balzo in avanti”. In pochi anni, Mao dà alle stampe il Libretto rosso (1964), indottrina folle di giovani (“Voi giovani siete dinamici, in piena espansione, come il sole alle otto o alle nove del mattino. In voi risiede la speranza […] Il mondo appartiene a voi. A voi appartiene l’avvenire della Cina”, si legge nel Libretto rosso, vera e propria giustificazione ideologica della Rivoluzione Culturale) e li trasforma nelle milizie note come “Guardie rosse”, talvolta paragonate ai sanculotti della Rivoluzione francese per la loro bassa estrazione sociale, per le loro violenze ai danni dei ricchi, degli intellettuali e dei monumenti dell’antica Cina. 

“Un esercito senza cultura è un esercito ignorante, ed un esercito ignorante non può vincere”, scrive Mao. Ma qui la cultura è solo quella marxista e rivoluzionaria: nella classe di intellettuali e nei simulacri dell’antica Cina, le Guardie rosse intravedono la controrivoluzione. Mao, nel suo Libretto, condanna fermamente i controrivoluzionari (parla di “eliminazione dei controrivoluzionari”), mentre ai “critici” riserva lo spazio del confronto dialettico, ma solo nell’ottica di una “educazione”, di una “persuasione”: la logica di recuperare i recuperabili e di estirpare le “erbe velenose” (così sono definite le “idee erronee”, cioè controrivoluzionarie). Questo perché la Cina, adesso, è il Partito, e tutti i cinesi devono condividere il progetto del Partito (“in ogni settore del nostro lavoro dobbiamo eliminare accuratamente qualsiasi manifestazione malsana che compromette l’unione del Partito con il popolo”).

Folla di giovani col Libretto rosso in piazza Tienanmen (1966)

La Rivoluzione Culturale, dunque, è solo un momento – peraltro non strutturale – nella lunga storia dell’esperienza comunista cinese, nei fatti terminata con Deng Xiaoping, con l’apertura all’Occidente e al neoliberismo. Morto Mao, con cui le Guardie rosse e la Rivoluzione Culturale si identificavano, anche il sentimento antitradizionalista scema. A riprova del fatto che la Rivoluzione Culturale fa parte di una manovra politica a breve termine: un tentativo da parte di Mao di rafforzare il proprio potere e di epurare la classe politica degli oppositori.

Deng Xiaoping, salito al potere dopo Mao, segnalò tra gli errori della nomenclatura che lo aveva preceduto proprio la Rivoluzione Culturale. E a ristabilire un contatto con le tradizioni della Cina imperiale è lo stesso Xi Jinping, con la ripresa del concetto di tianxia. Tianxia era l’espressione con cui i cinesi si riferivano all’Impero, vale a dire “tutto ciò che sta sotto il cielo”, dando un’idea di confini mobili che, nel caso di Xi Jinping, porta a una giustificazione dell’imperialismo.

Per cui, lo spettacolo “Shen Yun” propone una Cina che c’è sempre stata e che c’è tuttora, che è stata messa in crisi da un singolo, breve e violentissimo momento – la Rivoluzione Culturale – ben presto rientrato. 

Lo scrittore Premio Nobel Gao Xingjian, dissidente rifugiato in Francia, fermo oppositore del regime comunista, scrive, nel suo romanzo La montagna dell’anima (Bompiani 2002), composto tra l’82 e l’84:

“Così alle dieci di sera arrivo in un piccolo villaggio di montagna. Nell’atrio di casa bruciano bastoncini di incenso davanti a statue di legno e di pietra sfregiate, che [il vecchio padrone di casa, ndr] deve aver recuperato al monastero taoista distrutto all’epoca della Rivoluzione Culturale, durante la lotta contro le “quattro cose antiquate”, una decina d’anni prima. Adesso si possono esporre di nuovo e sulle travi sono affissi anche talismani”.

Anche se Mao e le Guardie rosse hanno provato ad attentare al millenario passato cinese, la cultura, i canti popolari, i templi e le statue hanno resistito, perché dietro a loro, a prendersene cura, c’erano e ci sono milioni di custodi, di professori, di cittadini ordinari che non hanno rinnegato le proprie tradizioni. Il sentimento nazionale cinese, oggi, è legato tanto alla sede del Partito quanto alla Grande Muraglia e alla Città Proibita.

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Un commento su “Il (non) senso de “La Cina prima del comunismo”

  1. Bravissimo! Mi ero fatta la stessa domanda e col vostro post ho trovato una ‘quasi risposta’ – a una domanda che andrebbe rivolta… a chi!?

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