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Filosofia e moventi della guerra di Putin

In Ucraina si stanno scontrando due visioni opposte del mondo. Un’ideologia non ha mai preso corpo come in questo conflitto. L’attacco della Russia si spiega anche nella logica imperialista di Putin di ristabilire un multipolarismo a livello mondiale che era stato compromesso dal crollo dell’Unione Sovietica. Gli ucraini invece combattono per essere una “democrazia occidentale”, e per impedire, di conseguenza, un riassestamento del baricentro mondiale a favore della Russia (e, insieme ad essa, della Cina).

 

La “quarta teoria politica”

Aleksandr Dugin, filosofo e politologo russo, è stato più volte definito “l’ideologo di Putin”. Forse è un’espressione impropria, ma il pensiero di Dugin è inquietantemente simile – anzi, in parte è il presupposto teorico – al programma politico messo in atto da Putin ormai da vent’anni. Capire pensatori come Dugin significa capire la temperie intellettuale e culturale di una Russia a pezzi dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la crisi economica e la parentesi di Yeltsin. 

Tornare al multipolarismo, a una grande Russia che possa contendere agli Stati Uniti il primato sul mondo: questo è il primo punto di contatto tra la filosofia di Dugin e la politica di Putin. E per farlo, serve prima scardinare l’ideologia, le certezze e le convinzioni occidentali e atlantiste. Dugin, perciò, teorizza una “quarta teoria politica”, che superi le tre ideologie che si sono scontrate nel Novecento: fascismo, comunismo, liberalismo, tutte frutto del pensiero occidentale. Scrive Dugin che serve “rifiutare le teorie politiche classiche, vincenti e perdenti, usare l’immaginazione, cogliere la realtà di un nuovo mondo, decifrare correttamente le sfide della postmodernità e creare qualcosa di nuovo”. Comunismo, fascismo e liberalismo, per Dugin, appartengono al “paradigma della Modernità”. Ora, cosa si intende per “Modernità”? Dugin la identifica col nichilismo, e cioè la secolarizzazione. Per questo bisogna tornare a un “paradigma della Tradizione”, su cui verrà fondata la quarta teoria politica. E “Tradizione” significa ritorno alla religione, ai valori tradizionali, alla simbologia intima di un popolo, al patriottismo in opposizione alla globalizzazione occidentale. 

Quella che Dugin, dichiaratamente esoterico, ammanta con termini come “quarta teoria politica” o “paradigma della Tradizione” non è altro che una moralizzazione della società: si rimarca l’importanza della religione – e Putin, dopo l’esperienza sovietica, ha riallacciato importanti rapporti con la Chiesa ortodossa – e dell’appartenenza alla nazione. E anche qui, è bene soffermarsi. Dugin, quando parla del sentimento nazionale, parla di “angelo” di un popolo. Ogni popolo, cioè, sarebbe provvisto di uno spirito, ontologicamente comune a tutti i rappresentanti di quel popolo. Quando si nasce russi, in altre parole, lo si è per sempre, inevitabilmente, anche se si nasce da tutt’altra parte. La presenza di questo “angelo”, di questo spirito dell’essenza di un popolo, non è affatto dimostrabile, e basa tutta la sua condizione di esistenza su una dichiarazione di intenti esoterici. Ma dall’affermazione secondo cui ogni popolo è ontologicamente diverso dall’altro discende il razzismo. Come l’angelo, neanche la razza è sperimentalmente dimostrata e dimostrabile. Questo tipo di filosofia iniziatica, nonostante le conseguenze tragiche e concretissime che può avere – dalla guerra in Ucraina alle persecuzioni contro i ceceni –, può far leva su molte persone. Tutto il nazionalismo di estrema destra russo, ad esempio, è debitore del pensiero di Dugin, così come anche certi movimenti neofascisti e antiamericani italiani, che vedono nel filosofo russo un possibile revival di Julius Evola, il più autorevole sostenitore italiano di tesi razziste.

Nella filosofia di Dugin è dunque centrale il ruolo del popolo, compatto, e non dell’individuo, atomizzato. “Le idee liberali considerano solo i diritti individuali e negano così l’esistenza dei popoli”, afferma Dugin in un’intervista. L’opposizione all’Occidente passa anche per il rifiuto dei diritti civili. Più importante dell’individuo è il popolo. Più importante delle singole opinioni è l’unità di pensiero del popolo (basti pensare alla repressione del dissenso che opera Putin, incarcerando i dissidenti e facendo chiudere le testate giornalistiche non allineate col Cremlino). Più importante dei diritti dell’individuo è il mantenimento del “paradigma della Tradizione” (e mi vengono in mente le numerose affermazioni omofobe di Putin, che si sono anche tradotte in leggi che contrastano i diritti LGBTQ a difesa, ancora una volta, dei valori tradizionali della famiglia).

 

Il “blocco orientale”

La quarta teoria politica è vaga, ampollosamente esposta, ed è il frutto di una cultura sterminata, quella di Dugin, che però non ha fatto altro che raffazzonare Platone, il pensiero esoterico orientale, il già citato Evola, e un altro filosofo controverso, talvolta indicato tra gli ideologi del nazismo: Martin Heidegger. Il tutto per giustificare un ritorno all’imperialismo, possibile solo all’interno di uno stato autoritario, dove il dissenso dell’individuo non può mettere in crisi il destino glorioso del popolo (e scrive infatti Dugin: “Il sentiero che l’umanità ha inaugurato nell’era moderna l’ha condotta proprio al liberalismo e al rifiuto di Dio, della tradizione, della comunità, dell’etnicità, degli imperi e dei regni”). 

Dugin considera appartenenti alla quarta teoria politica stati come la Cina e l’Iran, che del resto fanno parte dello stesso “blocco orientale” della Russia che si oppone fermamente agli Stati Uniti e al modello occidentale. E anche Cina e Iran hanno messo in pratica politiche di moralizzazione della società, di preservazione delle tradizioni: in Iran comanda un’élite religiosa che sottopone il codice civile alla norma del Corano; in Cina, Xi Jinping, quando è salito al potere, ha ribadito l’importanza delle radici imperiali (è il concetto di tianxia, cioè “tutto quello che sta sotto il cielo”: un’idea di confini che possono mutare e che giustifica l’imperialismo, soprattutto economico e delle infrastrutture) e delle tradizioni confuciane che Mao aveva messo in pericolo con la Rivoluzione culturale (da Confucio, la nuova generazione di dirigenti cinesi ha ripreso il concetto di rispetto verso le autorità e gli anziani, e quello di unità del popolo e di compattezza del pensiero, unici garanti dell’“armonia” all’interno della società – valori che i bambini cinesi imparano a scuola fin da piccoli). 

Anche in India – caso peculiare, ché è l’unica democrazia al mondo da più di un miliardo di persone -, il primo ministro Narendra Modi sta portando avanti dal 2014 una politica nazionalista di distanziamento dall’Occidente e di valorizzazione della presenza induista, a danno delle comunità islamiche (il Citizenship Act del 2019, ad esempio, regolamenta l’ottenimento della cittadinanza indiana in base al credo religioso, tagliando fuori i musulmani emigrati da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan).

Tutte queste direzioni politiche trovano riscontro anche in quanto afferma Dugin: “In realtà, l’ideologia del progresso è in sé razzista. L’assunto per cui il presente è migliore e più soddisfacente del passato, e le continue rassicurazioni che il futuro sarà ancora meglio del presente, sono discriminazioni contro il passato e il presente, ed umiliano tutti coloro che nel passato hanno vissuto. Sono un insulto all’onore e alla dignità dei nostri avi e una violazione dei diritti dei morti. […] Nella civiltà cinese, costruita sul culto dei morti e sulla riverenza per i morti come per i vivi, essere morti è considerato uno status sociale elevato, in un certo modo superiore alla condizione dei viventi. L’ideologia del progresso rappresenta il genocidio morale delle generazioni passate – in altre parole, il vero razzismo”.

L’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio è una tappa del processo di riassestamento del baricentro mondiale, di ritorno al multipolarismo. Laddove l’imperialismo degli Stati Uniti si è ritirato, l’imperialismo di altre forze è avanzato. In politica estera, i quattro anni della presidenza di Trump si sono caratterizzati per un ripiegamento progressivo degli Stati Uniti su se stessi, abbandonando il terreno siriano e afghano, lasciando che la Cina conquistasse economicamente l’Africa e che la Russia perseguisse la propria politica imperialistica in Ucraina, in Georgia e in Siria. Un passaggio di testimone dell’imperialismo: c’è chi, questo secolo, lo ha ribattezzato il “secolo cinese”, come il secolo scorso è stato quello “americano”. In generale, i nemici orientali che gli Stati Uniti hanno provato a contrastare negli ultimi venti anni hanno ripreso terreno e ne hanno conquistato altro (appunto, la Russia, il regime di Assad, i talebani in Afghanistan, e, economicamente, Cina e India). 

 

Il risentimento nei confronti dell’Occidente

Questa, chiamiamola così, risacca espansiva del blocco orientale si può comprendere solo se si tiene conto del risentimento che esso prova per quello occidentale. E le radici di questo rancore sono antiche. In Medio Oriente, a non voler andare troppo indietro nel tempo, dobbiamo tornare alla fine della Prima guerra mondiale: l’Impero ottomano viene smembrato col righello e nascono stati artificiali come la Giordania, il Libano, la Siria e l’Iraq; alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Occidente fonda un’enclave nel punto più strategico del Medio Oriente: lo Stato di Israele. Da qui in poi, con politiche non meno imperialiste di quelle di Putin, gli Stati Uniti sono intervenuti in prima persona nei conflitti in Medio Oriente: contro l’Iraq nel 1990 e nel 2003, contro la Siria nel 2011. Nel 2001 hanno invaso l’Afghanistan, che hanno abbandonato, venti anni dopo, in mano ai talebani.

Il risentimento russo va cercato nella vittoria statunitense della Guerra fredda: il capitalismo vince sul comunismo. Nel 1991, da seconda economia mondiale, la Russia passa a essere un paese in via di sviluppo, guidata da un politico corrotto e con problemi di alcolismo quale Boris Yeltsin. L’Unione Sovietica non era guidata da politici meno corrotti, e la sua popolazione non versava in condizioni di povertà minori. Ma qui si sta parlando di immagine, e, dal punto di vista russo, è stato un vero e proprio tracollo. Sentire, ad esempio, il presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush affermare, il giorno di Natale del 1991, “The Soviet Union is no more”, sentire che la propria nazione “non è più”: questo è il trauma, l’umiliazione, la catastrofe iniziale che ha dato senso di esistere a un nuovo nazionalismo razzista, antiliberale e antiamericano (e Dugin sale alla ribalta proprio in questi anni).

Nel 1999 sale al potere Putin, che caccia dal Cremlino un El’cin che barcolla e che è il simbolo di una Russia a pezzi che ora vuole e deve rinascere. E Putin è lì da vent’anni, e ci sta provando, a riportare la Russia ai fasti dell’Impero zarista e dell’Unione Sovietica. Per non sentire più il presidente degli Stati Uniti dire che “la Russia è una potenza regionale” (Barack Obama, marzo 2014).

La guerra, adesso, è tra un modello democratico, con tutte le storture che può presentare, e uno autoritario. Tra il modello dell’individuo e il modello del popolo. Tra il modello del secolarismo multietnico e il modello del tradizionalismo sciovinistico. L’Occidente ha delle colpe. Ma se si combatte, è anche per difendere il diritto al dissenso, il diritto a riconoscerle, queste colpe. Forse l’Occidente, inteso come sistema di potere, non biasima sé stesso. Ma gli occidentali (giornalisti, intellettuali, cittadini) possono biasimare l’Occidente (scandalo Watergate, Wikileaks, Afghanistan Papers) come, diversamente, non potrebbe accadere in Russia, in Cina, in Iran. Tutto, adesso, sta nel non perdere questa capacità di mettersi in discussione e di mettere in discussione.

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