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Il disastro delle Mauritius è un altro colpo alla stabilità ambientale del pianeta

Non si è parlato poco del disastro ambientale delle Mauritius.

È accaduto il 6 agosto scorso nell’oceano Indiano, in uno dei luoghi dalla biodiversità marina più estesa e ricca al mondo. Tutto è iniziato a luglio, quando la nave giapponese MV Wakashio è salpata dalla Cina per recarsi in Brasile, allo scopo di rifornirsi di merci.

La portarinfuse (per motivi ancora da accertare) si è incagliata il 25 luglio sulla barriera corallina a sud-est dell’isola, dove ha iniziato a sprigionare tonnellate di petrolio, annerendo una delle acque più cristalline al mondo e distruggendo uno degli ultimi frammenti di barriera corallina viventi.

Numerosi volontari provenienti da tutto il mondo sono accorsi per tentare di rimediare all’irreparabile; soltanto qualche settimana dopo, tuttavia, lo scafo ha ceduto aprendosi a metà e riversando in mare le rimanenti 3000 tonnellate di combustibile.  A questo punto la situazione è definitivamente precipitata, inducendo il primo ministro mauriziano Pravind Jugnauth a dichiarare lo stato di emergenza ambientale.

Uno dei paesi che si è più mobilitato nell’aiutare le isole Mauritius è stata la Francia che, insieme all’Unione europea, ha inviato i primi soccorritori e ne ha reclutati altri.

Il maggiore problema è che l’imprevedibilità di questo incidente ha fatto sì che il personale non fosse preparato e che i tempi si dovessero dilatare ulteriormente, rendendo la situazione sempre più incline a diventare irreversibile. Il fatto che la nave fosse alimentata da due differenti tipi di carburante, diesel e petrolio, ha inoltre peggiorato ulteriormente le cose.  

Il primo tende a intossicare e uccidere in pochi giorni tutti gli organismi con cui entra a contatto. Il secondo arreca il doppio dei danni in quanto non solo imbratta e soffoca la fauna ma, dopo qualche tempo, tende anche a depositarsi sul fondo rilasciando (anche per decine di anni) molecole cancerogene.

Più si dilunga l’attesa, quindi, maggiore è la probabilità che aumenti l’irrimediabilità dei danni, ma i paesi soccorritori, per fronteggiare l’emergenza, dovrebbero inviare squadre di sommozzatori a immergersi nelle profondità dell’oceano per cercare di rilevare e rimuovere il petrolio rimasto.

Viene spontaneo chiedersi, quindi, se valga veramente la pena continuare a rischiare così tanto pur di sfruttare queste materie prime. Sappiamo che questi fatti avvengono ma non abbiamo intenzione di cambiare perché, per farlo, sarebbe necessario un radicale mutamento nella struttura della società.

Abbiamo bisogno di uno stato che crei incentivi a politiche sostenibili, di una scuola che insegni cosa sta realmente accadendo nel mondo e di un piccolo sforzo da parte nostra. Perché essere “green” non vuol dire solo riciclare la carta o postare delle stories sull’ambiente, ma fare dei sacrifici: decidere di andare a piedi invece che in macchina, non comprare quella maglietta solo perché è carina, abbassare il riscaldamento in casa a costo di vestirsi un po’ di più o sensibilizzare le persone sulla causa ambientale.

Non si tratta di grandi propositi, ma sono solo di un modo di cambiare pian piano il nostro modo di vivere e ricostruire una nuova società, la nostra. Affinché storie come quella delle spiagge bianche e dei mari cristallini che si trasformano in uno scenario di morte per le Mauritius non debbano più essere raccontate e che tra qualche secolo i nostri figli e nipoti possano vedere il mondo come lo vediamo noi, maestoso ed ameno, senza pensare a cosa avremmo potuto fare di più per salvarlo.

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