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Capire la strategia di Putin e l’identità dei russi e degli ucraini. Con Andrea Graziosi.

Andrea Graziosi è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II. Uno dei massimi esperti italiani di Russia, ha pubblicato, tra le altre cose, due lunghi e importanti volumi che ripercorrono tutta la storia dell’Unione sovietica: L’URSS di Lenin e Stalin (Il Mulino, 2010) e L’URSS dal trionfo al degrado (Il Mulino, 2011).

 

Partiamo dal principio, dal discorso di Putin che ha preceduto l’invasione e con il quale il presidente ha sostanzialmente riconosciuto le repubbliche autonome del Donbass. In tale circostanza il presidente russo ha detto chiaramente che lo scopo dell’intervento militare sono la “demilitarizzazione” e la “denazificazione” della Russia. Soffermiamoci in particolare sulla denazificazione. Qual è il significato da attribuire a questo termine? 

Una delle cose importanti è che bisogna imparare ad ascoltare gli altri, anche quando gli altri sono sgradevoli. Bisogna evitare di essere autocentrati e di pensare che tutto giri intorno a noi e che gli altri facciano le cose perché noi facciamo qualcosa. 

Io credo che Putin e il suo gruppo dirigente abbiano negli ultimi anni, lentamente, sviluppato un discorso in cui è diventato necessario per la Russia rivedere gli assetti mondiali usciti dal ’91. Questo era il momento adatto, con la Cina in lite con gli Stati Uniti, gli Stati Uniti deboli, e l’Europa che ha bisogno del gas russo e dove Putin godeva dell’appoggio delle forze sovraniste con cui si è alleato nel corso di questi anni. 

Un perno fondamentale di questo sovvertimento dell’ordine del ’91 è il recupero dell’Ucraina, in linea con l’idea del Russkij Mir, il “mondo russo”. Il conflitto tra Russia e Ucraina ci viene presentato spesso come uno scontro tra due nazionalismi. Non è così. Quello ucraino si è trasformato in un patriottismo civico, non etnico. È significativo che il presidente sia di origini ebraiche e russofono: ciò vuol dire che l’Ucraina ha deciso, come Paese, di non legarsi ad un’identità etnolinguistica. Definire nazionalismo quello ucraino è quindi da questo punto di vista errato. Lo stesso si può dire di quello russo: Putin non vuole fare una Russia più forte, intesa in senso etnolinguistico. Putin non è un semplice nazionalista russo. Se fosse così, infatti, non si capirebbe perché dovrebbe negare l’esistenza dell’Ucraina o “denazificarla”. Il punto è che per lui non esiste la Russia come la pensiamo noi. Esiste, invece, un mondo russo che non è solo russo. Il suo cuore è a Mosca, la sua anima portante è la grande Russia, però questo mondo comprende anche una larga parte dell’Asia e degli altri popoli slavo-orientali che derivano dalla Rus di Kiev, ossia la Bielorussia e l’Ucraina. Putin, nei suoi discorsi, parla molte volte della Russia come fosse un continente a sé stante, costituito da un insieme di molti pezzi, centrato su Mosca e autonomo. 

Quanto alla parola “nazismo”, viene usata per due motivi: in primo luogo in continuità con l’ideologia sovietica, a cui molti russi sono tuttora abituati e per la quale gli ucraini sono visti come nazisti, per essere stati insieme ai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale; in secondo luogo per vendere questa ideologia all’Occidente. 

La “denazificazione” in realtà va vista come “de-occidentalizzazione”, o, meglio, come “de-europeizzazione”: l’Ucraina va ripresa perché sta scegliendo l’Occidente, corrotto e depravato, e non il mondo russo, ordinato e non corrotto, fondato sull’ortodossia religiosa. 

La guerra di Putin, quindi, è una guerra ideologica e la “denazificazione” consiste nell’eliminazione delle élite ucraine che hanno scelto il “nazismo” occidentale e nella trasformazione degli altri in abitanti del mondo russo.

 

Lei ha parlato della “de-occidentalizzazione”. A noi, in Italia, piace molto cercare le nostre responsabilità, ma da quello che ha appena detto, nel caso di questa guerra, sembra che la nostra unica responsabilità sia quella di essere democratici. No? 

Noi non abbiamo innescato nulla, e chi ne è convinto ha una visione primitiva di come vanno le cose. Il Novecento è stato il secolo dei bianchi, e dopo la Seconda guerra mondiale il mondo era diviso in tre: Stati Uniti, Europa e il blocco sovietico, tutti e tre dominati dai bianchi. Questa situazione, più o meno, è finita con la decolonizzazione. Tuttavia, permane un’idea occidentalo-centrica per cui si continua a pensare che ciò che succede nel mondo sia causa e colpa nostra, anche per auto-fustigarsi, non ammettendo che gli altri abbiano una capacità di agire indipendente. Ma in genere, una grande potenza come la Russia prende le proprie decisioni in base ai calcoli della propria élite, non in base alle nostre azioni, anche se naturalmente vi è una stima delle nostre capacità e reazioni. Certo, sarebbe possibile credere a una Russia solo reattiva se i loro documenti dicessero questo, ma non è così: loro scrivono con grande chiarezza che il loro problema non è la paura, ma una corruzione occidentale che si impadronisce di quello che credevano essere il loro mondo. Tutti quei Paesi che stanno perdendo peso, tra cui rientra la Russia, temono di trovarsi in un ordine globale in cui non comandano più: rifare un mondo russo diventa fondamentale come discorso che fa fronte a un declino. 

 

In un articolo del 12 luglio 2021 Putin ha scritto: “Il muro che si è creato negli ultimi anni tra Russia e Ucraina rappresenta secondo me la nostra grande, comune disgrazia e tragedia”. Nell’articolo, poi, ribadisce più volte come russi e ucraini siano lo stesso popolo, demolendo, di fatto, l’identità nazionale dell’Ucraina. Quanto è scorretto affermarlo? E ancora, molti ritengono l’Ucraina uno Stato artificiale. Cosa risponderebbe a tale affermazione? 

Visto quello che sta succedendo adesso e quello che l’Ucraina ha dimostrato, questa domanda ha già la sua risposta: se l’Ucraina fosse stata uno Stato artificiale, sarebbe già caduta. L’Ucraina, tuttavia, è stata storicamente spesso vista come l’invenzione di qualcuno, sebbene abbia nel tempo costruito una propria identità nazionale, che si è evoluta, come è normale che sia, cambiando molte volte nel corso degli anni. 

Putin, malgrado ciò, è seriamente convinto del fatto che l’Ucraina non esista, e, al di là della sua ideologia, è tratto in inganno dalla questione linguistica. Pensando, infatti, nell’ottica ottocentesca del nazionalismo etno-nazionale, ritiene che là dove c’è una lingua, allora ci sia un popolo. È emblematico che, già negli anni ’90, quando non era ancora presidente, diceva sempre che una delle tragedie del 1991 era stata lasciare 25 milioni di russi fuori dai confini della Russia. Putin lo affermava usando come criterio la lingua: c’erano, infatti, effettivamente 25 milioni di russofoni fuori dai confini della Russia. Il problema è che di quei 25 milioni una parte, pur parlando russo, non si sentiva russa, ma era un prodotto della storia sovietica. Il russo era infatti la lingua veicolare dell’URSS e aveva perso il suo carattere identitario, cessando di essere il criterio della nazionalità. Tutt’oggi in Ucraina la lingua russa è largamente diffusa, ma quando Putin le nega un’identità nazionale perché vi si parla russo compie un errore drammatico.

Oltre alla questione linguistica va detto che sicuramente negli ultimi anni, insieme alla de-etnicizzazione della lingua, è maturata una volontà, da parte degli ucraini, di diventare un Paese europeo: l’Euromaidan del 2014 ne è un esempio evidente. 

Tutti gli Stati hanno bisogno di un  discorso di legittimazione nazionale: quello del nuovo Stato ucraino è stato l’Holodomor, la grande carestia degli anni ’30. Così facendo gli ucraini hanno scelto di stare nel mondo delle vittime, insieme, ad esempio, ad ebrei e armeni. Il rifiuto di un nazionalismo etnico è molto legato anche alla scelta di avere come perno del discorso di legittimazione nazionale il fatto di aver subìto un genocidio. 

 

E il discorso legittimante della Russia?

La vittoria nella Seconda guerra mondiale contro la Germania, inevitabilmente. Per l’Unione Sovietica era la Rivoluzione d’ottobre, ma dopo il ’91 questo era impossibile, ed era necessario trovarne uno nuovo. Quindi, mentre gli ucraini hanno scelto un discorso che li rende vittime, i russi ne hanno scelto uno che li rende vincitori. Bisogna leggere Vita e destino di Vasilij Grossman, in cui si fa l’osservazione che la Seconda guerra mondiale, per i sovietici, ha un’anima di liberazione e di resistenza contro l’invasione nazista, ma anche di oppressione: con i sovietici che invadono e sottomettono tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale, la vittoria diventa anche un simbolo di oppressione sugli altri. Una guerra ambigua, quindi. 

Se Putin, allora, esalta la vittoria del ‘45, significa che: a) la Russia vince e impera; b) si riconosce nel grande Stato russo, e quindi in Stalin che non brinda al socialismo, ma al grande popolo russo.

 

Facciamo adesso un passo indietro. Putin è il padrone della politica russa dal  2000, dunque da più di vent’anni, nel corso dei quali ha promosso una visione sempre più personalistica del potere. Cosa è cambiato in questo tempo, a partire dalla sua posizione rispetto all’Occidente e alla NATO?

Putin sicuramente deve la sua – almeno in un primo periodo – indubbia popolarità al fatto che, all’inizio degli anni 2000, quando ha preso il potere, ha ricostruito lo Stato russo e ha riportato sostanzialmente l’ordine. Ciò anche grazie alle risorse economiche enormi derivate dall’esportazione di combustibili fossili. Lentamente, poi, ha costruito un’immagine di sé, in parte non falsa, sulla quale hanno influito vari fattori, tra cui la crisi dell’Occidente, la crescita dell’influenza della Cina, ma anche la debolezza degli Stati Uniti. Data tale situazione, Putin, con l’Ucraina che voleva con una determinazione sempre maggiore entrare a far parte dell’Unione europea, ha ritenuto che le armi potessero costituire la soluzione di tale problema. Le cose gli sono andate molto peggio di quel che pensava, ma i conti non erano del tutto sbagliati. Se, ad esempio, fosse stato presidente Trump, probabilmente le cose sarebbero andate molto diversamente. A questo punto, dunque, ci troviamo in una situazione terribile, nella quale lo scenario futuro più plausibile e auspicabile, a parte la caduta del regime putiniano, pare sia quello di un armistizio.

 

A cura di Luca Parisi e Alessia Prunecchi

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