Intervista a Maurizio Molinari, direttore di Repubblica

 Questo articolo fa parte del numero 23 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 30 ottobre 2020


Maurizio Molinari, giornalista, è direttore di Repubblica dall’aprile 2020. E’ stato corrispondente da New York per La Stampa dal 2001 al 2014, per poi dirigere il quotidiano torinese dal 2016 al 2020. E’ autore di oltre venti saggi: l’ultimo, Atlante del mondo che cambia, è uscito quest’anno per Rizzoli.

Direttore Molinari, iniziamo con l’attualità stringente. La seconda ondata di coronavirus è ora a pieno regime: come mai siamo arrivati a questo punto e come sta agendo il governo?

«La pandemia tende inevitabilmente ad espandersi: potrebbero susseguirsi varie ondate, fino all’arrivo di un vaccino. L’Italia, finora, si è difesa meglio rispetto agli altri paesi europei: ha chiuso tutto per tre mesi e ha impedito al virus di circolare. Dopo il lockdown il Governo ha giustamente lasciato autonomia agli italiani. Si tratta di bilanciare salute ed economia.

Adesso, i contagi stanno aumentando esponenzialmente: il virus sta colpendo anche il Sud e i giovani, ma è allo stesso tempo meno aggressivo, visto che le strutture ospedaliere lo conoscono meglio e dispongono di più terapie utili a combatterlo. Solo con una migliore medicina del territorio si può affrontare la congestione degli ospedali. Bisogna dunque ottimizzare il numero di tamponi che vengono fatti e migliorare il controllo dei contagiati: è fondamentale risalire ai contatti che un infetto ha intrattenuto. I paesi che stanno facendo meglio questo lavoro sono sicuramente la Corea del Sud, la Cina, Taiwan e, in parte, Singapore. Tutti paesi che, prima del Covid, hanno avuto a che fare con altre due epidemie, la Sars e la Mers».

Abbiamo visto le numerose iniziative di innovazione digitale che ha attuato presso Repubblica. Tra queste, l’introduzione dei cosiddetti longform, che sembrano in netta contrapposizione all’uso veloce e immediato dei media online.

«In passato i contenuti si trovavano solo sulle radio, sulle televisioni o sui giornali di carta. Dal 1999 si è aggiunto il digitale, che può ospitare una grande molteplicità di prodotti: articoli, video, audio e non solo.

Il balzo in avanti, in Italia, è stato raggiunto con il coronavirus, che ha spinto più persone a consumare informazione sul web; negli Stati Uniti è già successo nel 2016, in seguito all’elezione di Trump, quando il New York Times superò il milione di abbonati (ora ne ha più di cinque). Con tutti questi utenti, la richiesta di contenuti è diventata più sofisticata. Nel nostro caso, i prodotti che hanno avuto più successo sono state le video-inchieste di 10 minuti: massimo della qualità e massimo delle fonti – immagini dei droni, infografiche, audio e video originali montati tra loro – sommati a un periodo di tempo non eccessivo, perché online l’attenzione cala molto velocemente. Un video normale è lungo tre minuti, un video di approfondimento dieci. Allo stesso modo, se l’informazione digitale di base è lunga quindici righe, la scrittura di approfondimento è il longform. E devo ammettere che, sul piano degli abbonati, ci stanno dando molta soddisfazione».

Repubblica ha sempre occupato, nel panorama giornalistico italiano, il posto della sinistra riformista. Molti lettori storici della sua testata si dicono delusi della direzione più moderata che sta prendendo. Cosa dice loro?

«La sinistra riformista è per definizione moderata, ed espressione di un pensiero aperto. Le posizioni estreme, quelle ideologiche, sono state sconfitte dalla democrazia rappresentativa ormai un secolo fa. È vero, oggi a sfidare i nostri valori democratici ci sono il sovranismo e il populismo; un giornale, tuttavia, specie se riformista, deve opporsi a questi estremismi contemporanei e deve essere un laboratorio di idee alternative: le risposte estreme, seppur connesse a istanze reali, sono per forza sbagliate».

Lei si era apertamente schierato a favore del “No” al referendum del 20 e 21 settembre sul taglio dei parlamentari. Come ha reagito alla vittoria del “Sì” e cosa crede che succederà, ora, ai meccanismi del Parlamento?

«Ho notato che chi ha vinto ha fatto proprie le ragioni del “No”, sostenendo la necessità di fare una riforma elettorale. Giustamente, non si fa una riforma costituzionale soltanto tagliando il numero dei deputati e dei senatori: è un approccio puramente populista. Si tratta di un momento positivo per la vita democratica del nostro Paese: in Italia difficilmente si ascoltano le ragioni della fazione avversaria».

Il centro-sinistra ha perso le Marche, una regione che governava da quarant’anni, e ha rischiato di perdere la Toscana, la Lega di Salvini ha perso voti, i 5 Stelle hanno ottenuto pessimi risultati ovunque si sia votato. E’ difficile dire chi abbia davvero vinto le ultime regionali.

«Le regionali sono state vinte dalla coalizione di governo. L’opposizione, in un’elezione come questa, ha successo se riesce a infliggere una sconfitta alla maggioranza. In questo caso, il centrodestra aveva scelto come terreno di sfida la Puglia, la Toscana e le Marche, uscendone vincitore solo su un fronte. Si è dunque rafforzato il governo e si è indebolita la leadership di Salvini alla guida della Lega: il risultato elettorale in Emilia a gennaio e in Puglia e in Toscana un mese fa racconta la storia di un partito incapace di misurarsi su scala nazionale».

Tra pochi giorni milioni di americani saranno chiamati alle urne per le elezioni presidenziali: quanto la scelta di un democratico moderato come Biden potrebbe cambiare lo scenario politico statunitense?

«Le campagne americane hanno due fasi: quella delle primarie, dove si identificano i candidati e dove i Democratici devono essere più “democratici”, e i Repubblicani più “repubblicani”; poi c’è la fase della campagna elettorale, in cui i due candidati puntano alla vittoria. Ora, come si vince la fase finale? Al centro. Biden sta seguendo questo schema, facendo una serie di aperture sia a progressisti che conservatori e puntando così al voto degli incerti. Trump invece continua col suo linguaggio molto estremo, duro, tipico delle primarie. Questo perché Biden è all’attacco, e Trump teme che la sua base si sgretoli. Tanto più è aggressivo il linguaggio, tanto più è evidente l’indebolimento politico.

Bisogna comunque essere molto prudenti nel fare previsioni sul risultato. Quattro anni fa la dinamica era molto simile, ma con una differenza non irrilevante: stavolta gli elettori che hanno votato in anticipo sono 14 milioni, e non 6-7. Essendo, per tradizione, i democratici quelli che vanno a votare prima, è chiaro che la loro mobilitazione sia maggiore rispetto a quella dei repubblicani».

Quindi potremmo dire che non andrà a finire come quattro anni fa…

«Diciamo che oggi Biden è estremamente avvantaggiato rispetto a Trump. Però attenzione, perché la maggioranza degli elettori cambia idea negli ultimi giorni. Credo comunque che ci sarà una votazione a “valanga”. Non avremo un’elezione combattuta: o vince Trump, o vince Biden».

Intervista a cura di Tommaso Becchi, Luca Parisi e Federico Spagna 

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