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Era mio padre (regia di Sam Mendes, 2002)

“A chi mi chiede se Michael Sullivan era una brava persona, o un poco di buono, io do sempre la stessa risposta. Dico soltanto: era mio padre” –Michael Sullivan Jr.
Michael Sullivan si occupa di compiere “esecuzioni” per conto del boss mafioso irlandese John Rooney. Una sera, in un vecchio magazzino abbandonato, ad una di tali “esecuzioni” assiste Michael Jr., suo figlio. Il figlio di Rooney, Connor, tenterà quindi di eliminarlo, per timore che parli, ma ucciderà per errore la moglie e l’altro figlio di Michael. Michael e Michael Jr. inizieranno dunque una rocambolesca fuga per tutto l’Illinois, fino ad arrivare a Chicago, per uccidere Rooney e suo figlio. Quest’ultimo ha intanto messo sulle tracce dei due protagonisti Maguire, un killer dalla mente contorta, dedito al peculiare hobby di fotografare cadaveri. I Sullivan arriveranno infine alla villa sul mare dove sarebbero stati al sicuro, ma verranno raggiunti da Maguire, che ucciderà Michael padre. Quando il figlio tenterà di sparare a Maguire, sarà suo padre, in fin di vita, a compiere la sua ultima “esecuzione”, salvando l’innocenza del figlio.
Seconda prova alla regia per Sam Mendes (dopo American Beauty, 1999) e tratto dall’opera a fumetti di Max Alan Collins, il film, più conosciuto col titolo originale di Road to perdition, offre bellissimi e desolati scorci di paesaggi statunitensi, e, più in generale, ci mostra la fredda e cupa America del 1931. Soprattutto, offre un magnifico, poetico tratteggio di un rapporto padre-figlio, attraverso le avversità che i due protagonisti devono affrontare. Un film che, quindi, in un certo senso prosegue le tematiche già analizzate nel primo film del regista, un altro tentativo (ben riuscito di certo) di analisi esistenziale “a tutto tondo”. Il film resta impresso nel suo complesso, per la trama, le ambientazioni. Ma sono anche i dettagli a farne un capolavoro. La fotografia, con campi lunghi e statici (come già sperimentato in American Beauty) di Conrad L. Hall ha fruttato al film il suo unico Oscar; le musiche, magnifiche, di Thomas Newman (ancora una volta Mendes si rifà alla crew del suo precedente capolavoro) ed infine il cast, che, assieme all’indimenticabile scena finale, quasi onirica, è la vera forza del film. Tra gli attori figurano infatti Tom Hanks (Michael Sullivan), Paul Newman (John Rooney), Jude Law (Maguire), Daniel Craig (Connor Rooney), Stanley Tucci, mentre Michael Sullivan Jr. è interpretato da nientemeno che un giovanissimo Tyler Hoechlin. Nel complesso, il film, come detto, è una sorta di prosecuzione di quell’American Beauty che aveva dettato la poetica e soprattutto l’estetica del regista, indubbiamente originale e raffinata, ma che, come nel successivo Revolutionary Road (2008), rischia di sfociare nella pretenziosità. Qui però le tematiche e la preziosa estetica sono accompagnate dalla componente d’azione, che rende il film certamente più fruibile ad un vasto pubblico. Nel complesso, dunque, il film risulta emozionante, tiene lo spettatore col fiato sospeso grazie ad intrighi e credibili scene di azione, senza rinnegare però i momenti di riflessione tipici del regista, dando quindi un risultato convincente su tutti i fronti.
Ettore Pistolesi

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