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In memoria di Christopher Tolkien

Quando J. R. R. Tolkien stava scrivendo il suo capolavoro “Il Signore degli Anelli”, durante la Seconda guerra mondiale, aveva scelto come primo lettore e critico dell’opera suo figlio Christopher, soldato dell’aviazione inglese impegnato in Sudafrica. Christopher è stato protagonista della creazione di una delle più grandi opere della letteratura mondiale. Ha visto gli scritti originali, ha assistito il padre nella minuziosa materializzazione di una fantasia sconfinata, comunque estremamente legata alla tradizione medievale inglese. Quella ricerca di un linguaggio austero ed antico per poco non ha portato J. R. R. Tolkien a vincere il Premio Nobel per la letteratura negli anni ’60, venendo poi scartato, in quanto la sua prosa era stata definita ‘di seconda categoria’. Mai un errore critico è stato più grande. Tolkien non è un autore fantasy, ma un autore epico. “Il Signore degli Anelli” è quel nostalgico ed orgoglioso ultimo tentativo di portare nuova linfa all’esperienza del mito nordico, riconsegnandolo certamente con grande modernità, poiché inserito in un contesto storico ben preciso, ossia quello dei dopoguerra che Tolkien ha vissuto da protagonista.

Il grande autore inglese è morto troppo presto per vedere pubblicata l’opera che lui stesso considerava cardine, la vera realizzazione della ricerca artistica di una vita: “Il Silmarillion”. E qua entra in gioco Christopher Tolkien, senza cui non avremmo ricevuto un capolavoro di questo calibro, una vera e propria Bibbia dei tempi moderni. Ne “Il Silmarillion” si concentra tutto il messaggio tolkieniano già ampiamente affrontato con “Lo Hobbit” e “Il Signore degli Anelli”, dal viaggio, interpretato come scoperta di se stessi sulla falsariga dell’Odissea, allo scontro tra natura e industrializzazione, ben inserito nel contesto della cementificazione delle campagne inglesi dell’immediato secondo dopoguerra.

Il nome di Christopher Tolkien, sulle copertine di ogni libro pubblicato postumo del padre, appare in secondo piano, eppure è di fondamentale importanza. Christopher ha avuto il coraggio di tuffarsi nell’oceano di manoscritti, compiendo nel corso di quarant’anni un’indagine in quell’archivio dell’umanità che è tutta la produzione del padre. Grazie al suo lavoro di riordinamento e integrazione, sono giunti a noi libri notevoli come “I figli di Hurin”, “Beren e Luthien” e “La caduta di Gondolin”. Questi e altri sono l’incarnazione di una mente all’avanguardia, così visionaria da essere l’unica in grado di recuperare dal pozzo del tempo il fascino del mito norreno. E chi si è preso l’impegno di fronteggiare la sua genialità è stato suo figlio Christopher, lo stesso che ha tenuto in vita lo spirito del padre stroncando i tre film di Peter Jackson tratti da “Il Signore degli Anelli”, che, nonostante a mio parere siano ottimi, cinematograficamente parlando, non ricalcano quella malinconia di fondo del libro originale, seguendo una regia a tratti kolossal, ad altri più intima, ma sempre molto classica, che regala comunque scene notevoli (una su tutte la sequenza della battaglia al fosso di Helm). Anche Kubrick, seguendo la sua filosofia per cui “Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato”, aveva pensato di fare un film su “Il Signore degli Anelli”, coi Beatles già pronti a interpretare i quattro hobbit. Ma col naufragio del progetto si dovette aspettare gli anni 2000 e Peter Jackson. Ma Christopher sarebbe ritornato col tempo sui suoi passi, ammettendo che è l’opera di suo padre ad essere inadatta al grande schermo. Forse davvero la parola di Tolkien è inarrivabile, talmente cristallizzata nelle pagine e nell’inchiostro da venire inevitabilmente snaturata, anche se in piccola misura, in altri contesti.

Christopher rappresenta un ponte verso l’universo tolkieniano, un varco essenziale per la comprensione definitiva di un pilastro della letteratura inglese e non solo. Nel giorno della sua morte, ringrazio Christopher per aver completato il percorso di suo padre.

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